Vie nuove 5.4. O la vetta o la vita2. Mattia Conte: un “non alpinista” al Campo 3

Vie nuove 5.4. O la vetta o la vita2. Mattia Conte: un “non alpinista” al Campo 3
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Mattia Conte, l’altro italiano al campo base del K2 nel gennaio dei 2021, ama definirsi un “non alpinista”. È un avvocato milanese, frequentatore assiduo di Cervinia, uno sportivo che ha fatto un po’ di tutto: vela, paracadutismo, motociclismo, ginnastica artistica, sci, sub. Si è avvicinato all’alpinismo d’alta quote in prossimità dei cinquant’anni, scalando in estate, con tutta calma (“ero sempre l’ultimo”), il Manaslu e il Gasherbrun II (“cioè niente”, gli dicono i professionisti degli Ottomila). Però li ha saliti senza ossigeno e per questo si fa notare e diventa amico di Sergi Mingote, il fortissimo alpinista catalano che lo invita nientemeno che alla prossima invernale sul K2. Conte, un po’ stupito, un po’ lusingato, alla fine lo prende sul serio, si sceglie un allenatore speciale e, un po’ per gioco, un po’ per sfida, un po’ per curiosità, decide di partire.

La prima metà del libro è esilarante: un “non-alpinista”, spaventosamente infreddolito, sempre l’ultimo ad arrivare, tanto che talvolta ai campi alti non trova più posto nelle tende mettendo gli occupanti in grande imbarazzo. Nel caos di un campo base multi etnico, dove si studiano strategie, si costruiscono e si disfano alleanze, si litiga per le piazzuole, si sperimentano i cibi più strani, ci si inventa le maniere più assurde per farsi una doccia a 30 gradi sotto zero, tutti sul web in attesa delle previsioni del tempo, molti sui social a dialogare freneticamente coi followers, qualcuno sempre al telefono, con toni di voce un po’ troppo alti per gli standard del ghiacciaio del Baltoro. Per tenersi in forma e ingannare il cattivo tempo, c’è chi corre, chi balla, chi scala tutti i sassi della zona, chi improvvisa corsi di yoga in tende un po’ troppo piccole. Uno sguardo ironico, disincantato, di chi non ha mai pensato di vincere la sfida (“voglio solo conoscere i miei limiti”), ma è curioso di conoscere questi eccentrici mostri dell’alta quota, capirne le motivazioni, rubare qualche segreto. Spia soprattutto Nirmal Purja a cui strappa un suggerimento fondamentale per uno dei più seri problemi dei campi d’alta quota: la pipì notturna.

Poi, quando si incomincia a salire, campo 1, campo 2, campo 3, l’elastico dell’acclimatamento, il gioco si davvero fa duro: meno trenta, meno quaranta, fino a meno 51. Tende sempre più piccole, più inclinate, più esposte. Non si dorme. La storia diventa tesa, la tensione che gli autori trasmettono (il libro è stato scritto in collaborazione con Guendalina Sibona, scrittrice e sci-alpinista, e va dato atto che la collaborazione è dichiarata in copertina, correttezza non molto frequente nel mondo dell’editoria sportiva) diventa palpabile, la suspense cresce a ogni pagina (e, sia detto per inciso, incominciano a dare un po’ fastidio i lunghi flash back su quando Mattia Conte andava a scuola, in barca a vela, in motocicletta, in paracadute, divagazioni che, a piccole dosi, all’inizio tratteggiano abilmente la figura dell’autore, ma quando si entra nel cuore dell’azione, rallentano troppo il ritmo della lettura).

Nelle ultime cinquanta pagine, proprio a partire dal giorno in cui i nepalesi conquistano la vetta (ma ai campi bassi non si sa ancora nulla), inizia tutto un altro libro. Completamente diverso:

«Uno sherpa sta correndo nella mia direzione: “Sergi - sta chiamando me - Mattia è caduto”.

Lo guardo di rimando senza capire il senso delle sue parole. “Non sono Sergi” - gli rispondo semplicemente - “Sono Mattia”.

Il tutone rosso era identico. Il mio cervello sembra congelato. Impiego qualche secondo che pare infinito a mettere insieme i pezzi: “io sono qui e non sono caduto; il tutone rosso; Mattia è caduto”.

L’unico ad avere un tutone rosso come il mio è Sergi Mingote. Sergi è precipitato mentre scendeva poco dopo il campo uno, un tratto che sembra una passeggiata se confrontato alle insidie che si trovano più su.

In un attimo il mio mondo precipita».

Dopo la morte di Sergi tutto cambia. Sono rimasti in pochi al campo base dopo la ripartenza trionfale dei nepalesi e quella silenziosa di chi ha scelto di tornare a casa.

Le ultime pagine del libro diventano una riflessione sul limite, sul senso dell’alpinismo e della vita, sull’arte della rinuncia. Conte ridefinisce lucidamente il suo obiettivo: non la vetta, ma il Campo Tre. 7400 metri, la massima altitudine che un “non alpinista” abbia mai raggiunto in inverno.

Lassù le storie di Mattia e di Tamara si intrecciano, come quelle dei sopravvissuti, alcuni dei quali in preda a una droga mortale: la summit fever, una produzione di adrenalina che limita le tue capacità di giudizio e ti fa sopravvalutare le tue energie. John Snorry, Juan Paul Mohr, Ali e Said Sadpara, ne sono vittima, ma è “una pietra che incomincia a precipitare, che rotola sempre più veloce”. Decidono di tentare la vetta anche se i tempi concessi dal meteo per la summit push sono strettissimi. Tamara e Mattia decidono invece di scendere. La differenza tra la vita e la morte la fa solo la capacità di fermarsi, di rinunciare, di tornare indietro.

“Riconoscere i propri limiti è l’atto più coraggioso che un uomo possa compiere”. Alla fine del libro, Mattia Conte affida a una voce amica al telefono, il “sugo della storia”, come avrebbe detto Manzoni, mentre fra sé e sé incomincia sognare la prossima avventura: l’invernale sull’Everest.

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