Vie nuove 5.3. O la vetta o la vita1. Tamara Lunger e il richiamo del K2
Stanno incominciando ad arrivare in libreria i libri sull’invernale del K2, l’epopea seguita in diretta sui social nel gennaio 2021. Ma rileggerla per esteso sulla carta stampata, almeno per noi del vecchio mondo, è tutta un’altra cosa. E immagino che i libri saranno molti, perché l’impresa dei dieci nepalesi e la sconfitta dei migliori alpinisti del resto del mondo non è una storia per soli appassionati di montagna, ma entrerà negli annali della storia universale, come la vittoria di Amundsen al polo sud, che mise fine a due secoli di esclusiva inglese nell’esplorazione del mondo, o il passaggio di Francis Drake a Capo Horn, che mise fine al dominio spagnolo sugli oceani.
Ma non è di alpinismo e geopolitica che intendiamo al momento occuparci, anche se forte è la tentazione di incominciare a riflettere sulla portata economica e politica delle imprese himalayane di Nirmal Purja e dei suoi formidabili sherpa. E’ una storia più intima, legata ai due italiani che erano in quei giorni al campo base del K2. Un campo base molto affollato, a dispetto dell’inverno, una colorata e rumorosa comunità di tende che arrivò a contare alcune centinaia di persone, tra alpinisti, clienti, organizzatori, cuochi, portatori, tutti in qualche modo impegnati nell’ultima grande sfida dell’esplorazione del mondo: la vetta del K2, mai raggiunta d’inverno.
Il primo italiano (di cittadinanza se non di lingua) è la simpatica e solare Tamara Lunger. Bolzanina, campionessa sportiva (dal lancio del disco allo sci-alpinismo), aveva già raggiunto la cima del K2 nell’estate del 2014 e aveva poi sfiorato con Simone Moro, Ali Sadpara e Alex Txicon, nel 2016, l’impresa della vita: la prima invernale sul Nanga Parbat. Ormai di quella spedizione sappiamo quasi tutto, da punti vista diversi, quasi come un romanzo pirandelliano: il Nanga secondo Moro, secondo Txicon, secondo il povero Nardi, secondo Tamara Lunger. Che dopo mesi di assedio e immani fatiche dovette rinunciare, a settanta metri dalla vetta, quando ebbe la certezza che, se avesse proseguito fino alla cima, avrebbe raggiunto la gloria, ma non sarebbe più tornata a casa. E dovendo scegliere tra la vetta e vita, tra la fama eterna e la maledizione del secondo posto, a differenza di Achille, scelse di vivere. E guardò i suoi tre compagni di avventura proseguire, determinati, verso la gloria.
[Scusate la divagazione, ma è un’immagine che mi perseguita. Me l’hanno detto tutti, quelli che ci sono stati, che lassù, nell’aria sottile, il mondo è spietato (ma veramente anche quaggiù!), che lassù ognuno pensa a sé, sempre che si riesca ancora a pensare, con così poco ossigeno. Però, continuo a domandarmi: ma aspettarla un attimo? Ricordo le gite da ragazzo; a volte bastava non sentirti ultimo e abbandonato, bastava un amico che si fermava e ti diceva che rimaneva con te, poi trovavi risorse insospettate. Non so, forse confondo gli ottomila invernali con una passeggiata a un rifugio, però credo che un po’ arrabbiato, al posto di Tamara, lo sarei. Magari un “aspettatemi!”, tra me e me …].
Invece Tamara scese la montagna da sola, piangendo, rischiando tantissimo, senza la vetta e dovendo poi condividere al ritorno la tenda con i tre compagni vincenti.
Cinque anni dopo, Tamara Lunger è al campo base del K2, questa volta senza il compagno abituale, ma ritrovando vecchi amici, come Alex Txicon e Alex Gavan (con cui non funziona benissimo) e amici nuovi, come il brillante catalano Sergi Mingote o il simpatico cileno Juan Pablo Mohr, due tra i favoriti per la vittoria finale, insieme ad Ali Sadpara e al suo giovane e timido figlio, dietro ai quali si compatta tutto il tifo della nazione pakistana. E mentre al campo base si studiano le proiezioni climatiche, si fa esercizio scalando sassi, si combatte contro il freddo più spietato (“immaginatevi lassù”, si ripetono tutti), si litiga e si balla, appena compare un raggio di sole incomincia l’elastico dell’acclimatamento e della preparazione dei campi alti. Su e giù: campo uno, campo due, campo tre, tra sassi che ti sfiorano, ramponi che si staccano, venti che spazzano in un attimo intere giornate di lavoro, notti in tenda a meno quaranta.
Intanto i dieci nepalesi, gentili ma distaccati, continuano a preparare la montagna, piazzare campi e corde fisse, sempre più su.
Ma nel racconto di Tamara Lunger (cioè, diciamolo con chiarezza, nel racconto che Vinicio Stefanello costruisce a partire dalle testimonianze dell’alpinista di Bolzano - diamo il giusto merito anche a chi è bravo a scrivere) l’ombra della tragedia aleggia sin dalle prime pagine di un libro che si legge tutto di un fiato, un autentico romanzo di avventura, niente a che vedere con un “recit d’ascension” per addetti ai lavori.
E la prima tragedia si consuma nello stesso momento del trionfo. Mentre il 16 gennaio i dieci nepalesi si tengono per mano sulla cima del K2, un uomo dalla tuta rossa precipita all’improvviso, in un punto non troppo difficile. È Sergi Mingote, il forte alpinista catalano, nuovo amico di Tamara, quarantanovenne, che lascia una moglie e una figlia.
La montagna non è più la stessa. La festa dei nepalesi si incrocia con il trasporto del corpo di Sergi. Qualcuno decide di chiudere. Qualcuno vuole ancora tentare la vetta. Tamara è incerta, sta male. Si rinnova il dilemma del Nanga: prima donna sul K2 d’inverno, può valere una vita?
Alla fine Tamara rinuncia. Vede partire nella notte dal Campo 3, per il summit push, Juan Pablo Mohr, l’islandese Snorri e l’eroe nazionale pakistano, Ali Sadpara, con il figlio Sajid. Li avvolgeranno le nubi. Dopo tre giorni, disfatto, riappare il solo Sajid che racconta di aver avuto problemi con l’erogatore dell’ossigeno e di essere stato rimandato giù da suo padre. Mi piace immaginare che fosse solo una scusa e che il padre abbia voluto salvare suo figlio avendo intuito il destino che li attendeva.
(continua)