Vie nuove 5.2. “Scendere giù in mezzo agli uomini” Alpinismo e impegno civile nella vita di Guido Rossa

Vie nuove 5.2.  “Scendere giù in mezzo agli uomini”  Alpinismo e impegno civile nella vita di Guido Rossa
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Ottavio carissimo, l’indifferenza, il qualunquismo e l’ambizione che dominano nell’ambiente alpinistico sono tra le squallide cose che mi lasciano scendere senza rimpianto la famosa “lizza” della mia stagione alpina. Da ormai parecchi anni mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici che mi sono vicini l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza, un interesse che si contrapponga a quello quasi inutile (e non nascondiamocelo forse anche a noi stessi) dell’andar sui sassi”.

E’ l’inizio della celebre lettera del febbraio 1970 che l’operaio dell’Italsider di Genova, Guido Rossa, il forte alpinista “sceso in mezzo agli uomini” e assassinato dalle Brigate Rosse il 24 gennaio 1979, scriveva all’amico valdostano Ottavio Bastrenta, lo notéro drolo, compagno di cordate, ma anche di impegno civile.

E proprio sul tema del rapporto fra alpinismo e impegno civile, sulla complessa personalità di un alpinista inquieto, lasciato solo di fronte al terrorismo, ma anche snobbato dai suoi compagni di lotta nella sua passione per la montagna, verte il bel libro di Sergio Luzzatto, Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa, giustamente vincitore a Trento del premio ITAS per il miglior libro di montagna del 2021.

Su Guido Rossa si era già scritto molto. Ricordo soprattutto il toccante libro della figlia Sabina (sedicenne al tempo del delitto), Guido Rossa mio padre, che presentai a Verbania, al Festival di Letteraltura, nel 2007, in una tavola rotonda con Reynold Messner e Andrea Casalegno, il figlio di Carlo, il vicedirettore de “La Stampa” assassinato dalle Brigate Rosse. Anche in quella occasione la lettera al notaio Bastrenta, che Sabina Rossa pubblicava in forma integrale (dopo una prima parziale edizione pubblicata proprio in Valle su “Le Travail”, il settimanale della Federazione valdostana del PCI, il 15 febbraio 1979), fu al centro del dibattito. E mi fece particolarmente piacere trovarmi in piena sintonia con Messner (di fronte a una platea in verità un po’ sconcertata), a sostenere che l’alpinismo non è affatto al di sopra della politica, come amano sostenere tanti alpinisti, e che “i rumori del mondo” arrivano anche sulla cima delle montagne. Io l’avevo scoperto nelle biblioteche ricostruendo gli usi politici della montagna nell’Europa dei nazionalismi. Messner l’aveva scoperto sulla sua pelle, sin dal 1970, sulle pendici del Nanga Parbat, e da quei giorni non aveva mai nascosto le valenze politiche della sua rivoluzione alpinistica.

Intanto Guido Rossa era diventato un “santino laico”, con tanto di celebrazioni rituali: ricorrenze, lapidi, intitolazioni di vie, piazze, scuole e centri culturali. Persino uno sceneggiato televisivo di successo, quasi una tardiva riparazione per averlo lasciato solo (sì, anche i suoi compagni di lotta, come ricordò amaramente Luciano Lama di fronte alla sterminata folla che lo accompagnò nel suo ultimo viaggio), a denunciare le infiltrazioni in fabbrica della colonna genovese delle Brigate Rosse.

Sergio Luzzatto, docente alla University of Connecticut, già noto per alcuni libri intriganti e provocatori (tra cui Partigia, un’indagine brillante e spietata su alcuni aspetti di cui non si dovrebbe parlare della Resistenza valdostana), va al di là della retorica per ricostruire, attraverso l’archivio di famiglia, non il martire, ma l’uomo: l’operario fresatore immigrato dal Veneto nella Torino della Fiat e poi nella Genova dell’Italsider (ma anche di Fabrizio de André e di Paolo Villaggio); il sindacalista, delegato operaio e militante comunista, ma anche il paracadutista e l’alpinista di fama (per quanto lavoro e famiglia gli consentissero di esprimere le sue potenzialità).

Ma come conciliare l’alpinismo con l’impegno civile? La “conquista dell’inutile” con la voglia di cambiare il mondo? ? l’interrogativo che attraverso buona parte della vita di Guido Rossa.

L’amico Bastrenta fu accolto dai fischi degli accademici del Cai quando al Teatro nuovo di Torino, il 27 novembre 1976, al Primo Convegno Nazionale sull’alpinismo moderno, denunciò “l’ossessione personalistica e la competizione esasperata” come “l’espressione di una concezione e di una prassi borghese e capitalista” e il non senso di rischiare la vita per uno scopo puramente individualistico senza “dare nulla per scopi sociali”. Solo Guido Rossa andò ad abbracciarlo al termine del suo intervento. Lui, la sua scelta di “scendere giù in mezzo agli uomini”, l’aveva già ben chiara almeno dai tempi della drammatica spedizione Cai-Uget in Nepal, verso l’invitta cima del Lirung, nell’autunno del 1963. Presentando al Cai di Genova le diapositive del viaggio, anziché le immagini della parete sud del Lirung, preferì mostrare al pubblico la “tremenda fame dell’Asia”, la “miseria che non abbiamo nemmeno avuto il tempo di documentare”, ma che “in tutti noi ha suscitato il grande desiderio di fare qualcosa per alleviarla”.

Di qui la scelta dell’impegno civile, come ribadisce con forza nella lettera a Bastrenta, la scelta di “scendere giù in mezzo agli uomini”, una scelta “che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti, sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio, per poi raggiungere (meritato) un paradiso di vette pulite perfette e scintillanti, dove per un attimo o per sempre possiamo dimenticare di essere abitanti di un mondo colmo di soprusi e di ingiustizie, di un mondo dove un abitante su tre vive uno stato di fame cronica, due su tre sono sotto alimentati e dove su sessanta milioni di morti all’anno, quaranta milioni muoiono di fame”.

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