Vie Nuove 5-13.Donne alpiniste 5. Alessandro Pastore: “Il cammino da percorrere è ancora lungo”
Vie Nuove 5-13. Donne alpiniste 5. Alessandro Pastore: “Il cammino da percorrere è ancora lungo”
Alessandro Pastore è professore emerito all’Università di Verona, dove ha insegnato a lungo Storia moderna e Storia della medicina. Grande appassionato di montagna, ha pubblicato, tra i numerosi saggi, il libro fondamentale Alpinismo e storia d’Italia (Bologna Il Mulino 2003) dove ha ripercorso la storia del Club Alpino Italiano dalle origini alla Resistenza. Ci sembra la persona più adatta a cui rivolgere alcune domande.
Professore, l'Alpine Club di Londra non ammetteva le donne. In Italia (come in Francia e Germania) sì. Perché? Ci fu discussione?
In Inghilterra e in Scozia, come anche in Svizzera, ai primi del Novecento nascono associazioni separate di alpiniste, data la loro esclusione dal corpo sociale maschile, che rivestono però un ruolo tutt’altro che marginale. Si pensi che il Ladies Alpine Club vantava la presidenza onoraria nella persona di Margherita di Savoia e, forse anche per questa ragione, la Rivista mensile del Club Alpino Italiano dava conto dell’attività alpinistica delle donne d’Inghilterra. Ma l’apertura al genere femminile e la loro ammissione nei ranghi del CAI fu oggetto di contesa. Nel 1873 una riunione del Consiglio Direttivo fu particolarmente animata a partire da un caso specifico: il verbale ci informa che Maria Farné aveva chiesto di aderire al Sodalizio, ma nella discussione non mancarono le posizioni di chi adombrava “pericoli” nell’accostare i due sessi nel corso delle attività sociali; tali rischi potevano però essere ridotti o annullati quando le candidate fossero ritenute “educate e di buona società”. La votazione finale autorizza l’iscrizione di Maria, ma il dibattito è una spia rivelatrice del filtro sociale che all’epoca si riteneva necessario operare prima di ammettere la donna in un consesso marcato da uno stile di vita e da una mentalità prettamente maschili.
Quante erano all'inizio le donne nel Cai, chi furono le prime ammesse? Con quali criteri?
Erano certo una minoranza, ridotta ma non trascurabile. Non abbiamo a disposizione dati completi sulla presenza femminile nel corpo sociale del CAI alle origini e nei primi decenni di vita. Alcune sezioni però hanno conservato gli elenchi degli iscritti e da questi emergono i nomi e i cognomi delle donne. A Milano nel 1894 figurano 39 donne fra i 606 soci ordinari e aggregati; a Firenze nel 1912 solo 11 su 177 iscritti. Queste percentuali non variano di molto se consideriamo due città come Trieste e Trento, ancora parte dell’Impero austro-ungarico: nella prima la componente femminile nel 1914 era di 45 su 803 mentre nella seconda rappresentava il 4% degli iscritti già negli anni settanta dell’Ottocento.
Le “signore” e le “signorine”, per usare il lessico del tempo, appartenevano alla categoria degli aggregati, e si trattava quindi di mogli, sorelle e figlie di soci; tuttavia, come appare anche dalle fotografie d’epoca e da alcune testimonianze scritte, percorrevano sentieri alpini e, le più preparate, anche vie di roccia e traversate su ghiaccio. La loro origine sociale corrispondeva a quella maschile, e dunque in larga prevalenza provenivano dalle file della nobiltà, dalla borghesia industriale e delle professioni, dal mondo militare e da quello della cultura e della scienza, esemplato quest’ultimo sulla figura carismatica di Quintino Sella, fondatore del CAI.
È d'accordo che nell'alpinismo ottocentesco le donne erano presenti, ma "voci negate" perché il loro andare in montagna era un atto trasgressivo, quasi rivoluzionario?
Non è facile rispondere in modo netto alla tua domanda. La morale ottocentesca non vedeva di buon occhio i contatti ravvicinati fra i due sessi, specialmente in luoghi non frequentati come l’alta montagna, e questo elemento può aver limitato la partecipazione femminile. Comunque quando le donne praticano escursionismo o si impegnano nell’alpinismo sono affidate in prevalenza a padri, mariti e fratelli che ne custodiscono l’onorabilità. Tuttavia i libretti delle guide alpine rivelano anche casi di donne, singole o in coppia, che si affidano alla loro perizia. Quintino Sella apprezzava che le ragazze salissero a quote elevate per poter aprire “il vergine e sensibile loro animo alle maschie bellezze delle Alpi” e in quegli stessi anni una pioniera come Carolina Lavazzi-Palaggi scriveva nei suoi Ricordi alpini che nelle ascensioni aveva inteso “strappare la verginità” alle vette raggiunte e su di esse “consumare il banchetto nuziale”. Sotto la penna sia di un uomo sia di una donna ritroviamo un linguaggio allusivo a una sessualità che si temeva si manifestasse, ma che poi veniva evocata, sia pure in forma sublimata, nel rapporto fra il mondo naturale e la figura femminile.
Negli anni Trenta abbiamo in Italia alcune forti alpiniste. Possiamo dire che il fascismo ha aperto le porte alle donne in montagna?
Già all’inizio del Novecento si possono cogliere segnali di cambiamento che mostrano una maggiore apertura. Nel 1913 una pubblicazione celebrativa del 50° del Club Alpino Italiano segnala che le donne, legate in cordata all’uomo (beninteso!), sono “partecipi della gioiosa battaglia” e si impegnano non solo in “lunghe e faticose marce” ma anche in “audaci ascensioni”. Di queste ultime sarà protagonista una pattuglia di donne che all’epoca della “battaglia del 6° grado”, negli anni trenta del secolo, si cimentano su itinerari di elevata difficoltà. Alcune hanno narrato le loro esperienze, come Ninì Pietrasanta, di altre c’è rimasta testimonianza scritta e orale, come su Mary Varale, Emma Capuis, Paula Wiesinger. Numerose sono le alpiniste rimaste nell’anonimato, anche se ricercatrici attente cercano di trovarne le tracce per squarciare il velo di silenzio che avvolge le loro vite, come del resto quelle di tante donne attive in altri campi. Per tornare alla tua domanda, non si può certo affermare che la concezione fascista della donna sia fondata sulla parità, sull’emancipazione e sull’indipendenza; ma la valorizzazione dello sport può aver giocato nel consentire anche al corpo femminile la sfida verticale con la montagna.
Si può dire che oggi nel Cai il gap di genere è stato colmato?
Una domanda complessa. I numeri esprimono una tendenza al positivo: la base femminile è in crescita e supera il terzo dei 300.000 soci CAI. Se però si guarda a un organo di vertice come il Comitato Centrale di Indirizzo e Controllo, la “altra metà del cielo” si limita a 3 componenti su 19. Anche qui, come nelle istituzioni, nelle università e nei centri di ricerca, le posizioni apicali restano saldamente nelle mani maschili. Analogamente, le guide alpine donne rappresentano meno del 2 per cento del totale, anche se fra gli aspiranti lo scarto di genere si riduce. Passi avanti si sono fatti nell’avanzare verso il traguardo della parità, ma il cammino da percorrere è ancora lungo.