Vie nuove 5-12Donne alpiniste 4. Alessia Daricou: dal Campo Base del K2

Vie nuove 5-12Donne alpiniste 4. Alessia Daricou: dal Campo Base del K2
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Vie nuove 5-12 Donne alpiniste 4. Alessia Daricou: dal Campo Base del K2

Perdonatemi la vanità (ma è una delle poche soddisfazioni del mestiere): Alessia Daricou è stata una mia allieva, brillantemente laureatasi in Scienze della formazione primaria con una bella tesi sull’alpinismo valdostano, per l’esattezza su come spiegare ai bambini la storia dell’alpinismo in Valle d’Aosta, un lavoro che meriterebbe molto di più che il giacere nello scaffale di una biblioteca. Non sapevo allora che era anche una brava alpinista. L’ho scoperto quasi per caso seguendo la spedizione delle nostre guide al Nanga Parbat, Broad Peak e K2 e il trekking al campo Base del K2, guidato da Roger Bovard (un sogno della mia vita, se fossi stato un po’ più giovane!).

Oggi Alessia è un’insegnante della scuola primaria di Breuil Cervinia, laureata anche in lingue e letterature moderne che, durante le vacanze estive, ha deciso di raggiungere e sostenere il proprio compagno, François Cazzanelli, alla base della montagna che sognava di scalare da tempo: il K2.

Allora, Alessia, come è andato il trekking al campo base del K2? Molto impegnativo?

«Camminare al cospetto dei giganti situati lungo il ghiacciaio del Baltoro è stata per me e per il mio gruppo di amici un’esperienza molto intensa che non dimenticherò certo facilmente. L’avventura ha avuto inizio il 13 luglio nella città di Skardu, “la porta d’ingresso agli Ottomila”, dove ci attendeva Roger Bovard, tornato dall’ascensione del Nanga Parbat e pronto a guidarci tra le montagne del Karakorum.

Dopo aver caricato tutto il materiale necessario sulle jeep e conosciuto la guida locale assieme al nostro cuoco e alla squadra di ragazzi che aveva il compito di allestire i nostri campi, siamo partiti attraversando la valle scavata dallo Shigar River per raggiungere Askoli, l’ultimo piccolo villaggio dal quale ha avuto inizio il trekking vero e proprio. Il percorso in jeep è stato piuttosto tortuoso: in diversi punti la strada era interrotta a causa del cedimento di ponti e abbiamo dovuto attraversare dei brevi tratti a piedi per raggiungere la vettura sul lato opposto, aiutati sempre dalla popolazione locale che trasportava tutti i nostri bagagli.

Partendo da Askoli, abbiamo risalito a piedi la valle del Baltoro facendo tappa prima a Joula, poi a Paju, ultimo campo prima del ghiacciaio dove abbiamo deciso di sostare un giorno per riposare nelle nostre tende. Successivamente abbiamo fatto tappa a Urdukas e a Goro 2 fino a raggiungere il Concordia Camp dal quale è possibile scorgere per la prima volta l’immensità del K2 accanto al Broad Peak e al G4. Il giorno seguente, il 20 luglio, eravamo pronti a incontrare François che stava scendendo dal Broad Peak assieme a Pietro Picco.

Come si vive, dal basso, la spedizione in vetta dei propri compagni? Un grosso spavento immagino sul Broad Peak. Cosa è successo e come avete vissuto la cosa al campo base?

«In genere vivo il giorno della salita con apprensione nell’attesa di ricevere la chiamata dalla vetta per sentire che tutto è andato per il verso giusto e che si preparano a scendere. Al Broad Peak invece, François mi ha chiamata parecchio scosso per dirmi che purtroppo un alpinista inglese era caduto davanti ai suoi occhi e che aveva deciso di non tentare di raggiungere la vetta. Eravamo tutti molto preoccupati e continuavamo a “binocolare” la montagna per cercare di scorgerli fino a quando non sono giunti al campo base».

Com’è la vita a un campo base? Com’è questo mondo dell’alpinismo d’alta quota?

«La vita al campo base è apparentemente tranquilla: gli alpinisti riposano nelle loro tende e, tra una chiacchierata e una risata, dedicano il tempo a pianificare le loro mosse in base alle condizioni della montagna e alle finestre di bel tempo. In mezzo al gruppo della spedizione valdostana, ho respirato un clima molto sereno e di condivisione, sicuramente importante per la riuscita del loro ambizioso progetto».

Il Pakistan, un mondo molto diverso (anche rispetto al Nepal), difficile, in certe zone anche pericoloso. Sappiamo di scorte armate, di molti divieti. Com’è stato il viaggio?

«Lungo tutto il percorso del trekking, contrariamente ad altre zone del Pakistan, come ad esempio vicino al Nanga Parbat, non abbiamo incontrato particolari pericoli o restrizioni. I nostri portatori, i cuochi e la guida locale sono sempre stati molto gentili, accoglienti e cordiali nei nostri confronti e chi conosceva un pochino di inglese ha cercato di instaurare un dialogo con noi».

Avete attraversato diversi villaggi, come sono i stati rapporti con la popolazione locale, con le donne in particolare?

«Ad Askoli e a Hushey, i villaggi di partenza e di arrivo del trekking, la popolazione locale ci osservava molto incuriosita e i bambini ci venivano incontro giocando. Purtroppo non abbiamo avuto la possibilità di conoscere delle donne, che abbiamo incontrato solamente nei villaggi intente a lavorare nei campi o a badare ai bambini. Al nostro passaggio, si coprivano il viso e si voltavano. Addirittura la guida locale ci ha raccomandato vivamente di non fotografarle».

Come si è concluso il trekking?

«Per evitare di ripercorrere lo stesso cammino dell’andata, siamo rientrati attraverso il colle del Gondogoro, un passo a 5.600 metri attrezzato con corde fisse che ci ha permesso di percorrere la Gondogoro Glacier Valley e di raggiungere il rigoglioso villaggio di Hushey in poco tempo. Questa è stata sicuramente la parte più impegnativa di tutto il trekking dove è stato necessario utilizzare materiale alpinistico».

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