Vie Nuove 5-11Donne alpiniste 3. Oriana Pecchio: “Ci sono differenze, ma alcune vantaggiose”
Vie Nuove 5-11 Donne alpiniste 3. Oriana Pecchio: “Ci sono differenze, ma alcune vantaggiose”
Oriana Pecchio è medico internista, tra i soci fondatori della Società italiana di medicina di montagna. Autrice, tra altro, a livello divulgativo, di Escursionismo e salute, l’escursionista editore 2010 e di Escursionismo e ferrate in Valle d’Aosta, Musumeci 2004. Per molti anni ha collaborato con La Vallée Notizie con le pagine “Alpi e dintorni” e “Gente di montagna”.
Oriana, una volta si diceva che l’alpinismo non era adatto alle donne. Che l’alta quota era territorio dei maschi, che alle donne faceva male. Perché si pensava questo?
Credo dipenda da fattori culturali legati al ruolo femminile all’interno della società occidentale. Si fa nascere l’alpinismo con la prima ascensione al Monte Bianco, quindi è una storia recente di poco più di duecento anni. Credo occorra pensare a come sia cambiata la posizione della donna all’interno della società in questi due secoli non solo per l’alpinismo. Mi vengono in mente le lotte per il diritto di voto, per l’accesso ad alcune facoltà universitarie, per la pratica di certi sport (vedi il calcio), per l’accesso all’esercito: sono solo alcuni esempi. Quindi che l’alpinismo non fosse adatto alle donne era un “luogo comune” creato da una società, maschilista e patriarcale, e senza basi “biologiche”.
Quando si è cominciato a dubitarne?
Dopo Marie Paradis, cameriera di Chamonix, modesta camminatrice ma non abituata all’alta quota, che fu aiutata dai compagni a raggiungere la vetta del Monte Bianco, fu la nobile Henriette d’Angeville, la prima a scalarlo con le sue forze. Già dagli inizi dell’Ottocento si sapeva che le donne potevano raggiungere la vetta più alta delle Alpi. Nell’Ottocento ci sono tanti esempi di frequentazione femminile della montagna, donne abbienti, soprattutto anglosassoni e statunitensi: lady Henry Warwick Cole (purtroppo compare sempre come moglie di, e mai con il suo nome) che lasciò un dettagliato resoconto del suo viaggio intorno al Monte Rosa, con consigli per abbigliamento e scarpe; Jane Freshfield, Emma King, Meta Brevoort e Lucie Walker che si contesero la prima ascensione femminile del Cervino, tutte con ascensioni su vette valdostane. E poi Fanny Bullock, esploratrice del Karakorum con le guide di Courmayeur (suo il record di altezza sul Pinnacle Peak di 6.952 metri stabilito nel 1906 e durato ben 28 anni) e Annie Peck che scalò lo Huascàran. Ma ci furono anche alpiniste italiane. Chi ricorda che il monte Emilius deve il suo nome a Emilie Argentier che lo scalò nel 1836 con l’abbé Geoges Carrel, quando era ancora denominato Pic des dix heures? E poi ci sono la torinese Carolina Palazzi Lavaggi che nel 1882 scrisse “Le donne alpiniste” e Alessandra Boarelli che scalò il Monviso nel 1864, per non parlare delle portatrici carniche che nella seconda metà dell’Ottocento guidavano gli alpinisti, molti inglesi, sui sentieri carnici e friulani, come ricorda Daniela Durissini nel libro “C’è una donna che sappia la strada”. Camminavano su ripidi sentieri con pesanti gerle sulle spalle e pure facendo la maglia. Quindi già dalla seconda metà dell’Ottocento si sapeva che le donne potevano andare in montagna, anche ad altissima quota e che non solo non era dannoso per la loro salute ma potevano trarne giovamento. Bastava non parlarne, far finta di niente. E la strada è ancora lunga se si pensa che anche oggi le donne faticano a trovare abbigliamento e calzature studiate per loro nella fascia “top di gamma” per l’alpinismo di alta quota, anche se per l’arrampicata sportiva si è raggiunta la parità.
Quando la medicina ha incominciato porsi il problema di studiare le reazioni di un corpo femminile a situazioni ambientali particolari tra cui l’alta quota o il freddo estremo?
Questa è storia molto più recente. Charles Houston, medico e alpinista statunitense, aveva aggiunto un capitolo sulle donne in alta quota solo nell’edizione del 1982 del suo libro “Going higher”. Dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso compaiono le prime pubblicazioni di studi scientifici condotti esclusivamente su donne in alta quota o in ipossia simulata (cioè in camera ipobarica dove la pressione parziale dell’ossigeno diminuisce come in alta quota). Uno dei primi studi riguardava le componenti della spedizione femminile americana all’Annapurna del 1978. Per la cronaca la vetta fu raggiunta da Vera Komarkova e Irene Beardsley, prime donne e prime americane a scalare l’Annapurna. Il libro scritto da Arlene Blum, capo spedizione, “Annapurna, a woman’s place” è stato fonte di ispirazione per le alpiniste della mia generazione. Quei primi studi concludevano che le donne non erano diverse dagli uomini, in grado di sopportare elevati carichi di lavoro ad alta quota se in buone condizioni fisiche e adeguatamente acclimatate. Gli studi sono poi aumentati sia perché negli Stati Uniti le donne erano state ammesse nell’esercito e quindi era necessario studiare le reazioni al femminile in ambienti estremi e ostili (deserti, ambienti polari, alta quota) sia perché dai primi anni Novanta si è cominciato a parlare di “medicina di genere”, cioè delle differenze biologiche e socio culturali che influenzano lo stato di salute e di malattia in uomini e donne. Posso spiegare meglio con un esempio. I dosaggi dei farmaci negli adulti sono tarati su maschi di peso medio 70 chilogrammi e le donne pur essendo soggette alle medesime malattie degli uomini, presentano sintomi, andamento e risposta ai trattamenti molto diversi tra loro. Bambini, anziani, uomini e donne sono diversi e nell’ottica di curare il paziente e non la malattia in modo generico, per fortuna si sta dando spazio alla medicina di genere. In Italia il relativo quaderno del Ministero della Salute è solo del 2016.
Allora delle differenze esistono fra uomo e donna in montagna, ma non necessariamente a sfavore delle donne?
Esatto, ci sono delle differenze anche in montagna e alcune potenzialmente vantaggiose. Per esempio a livello metabolico sembra che le donne in alta quota utilizzino più i grassi che gli zuccheri come combustibile. Il vantaggio potrebbe essere quello di preservare glicogeno nei muscoli e di poter contare su un combustibile (i grassi appunto) che a parità di peso fornisce quasi il doppio di energia. Anche in questo campo c’è bisogno di molti studi per capire le differenze e trarne vantaggio. Il sottotitolo di una conferenza promossa nel 2015 da Silvia Metzeltin a Fucine di Ossana, in provincia di Trento, su donne sportive senza età diceva proprio “vivere le differenze di genere e di età in positivo”.