Una storia un po’ da riscrivere 8. “Il più completo e organico degli sport”
Nel suo primo congresso di Torino del settembre 1904, la “Gioventù Cattolica Italiana” propose, fra l’entusiasmo dei partecipanti, la creazione di un “Club Alpino Cattolico”, per contrastare la deriva nazionalista e massonica del Club Alpino Italiano. L’idea si inscriveva all’interno di un ampio progetto di organizzazione dello sport cristiano che caratterizzò i primi anni del Novecento, quando, all’indomani della Rerum Novarum, la Chiesa individuò nello sport uno strumento di disciplinamento sociale e di aggregazione del mondo giovanile, attraverso il “sano e onesto divertimento”. L’esempio veniva dalla Francia dove, nell’ultimo decennio del secolo, si era costituita la vasta rete dei patronnages sportivi cattolici (150.000 iscritti alla vigilia della guerra) ai quali veniva affidato un ruolo di riconquista cristiana della società. Il medico lorenese Paul Michaux ne aveva tracciato le basi ideologiche: lo sport come “scuola morale” in grado di trasmettere i valori della disciplina, della perseveranza e dell’obbedienza, contro i pericoli dell’associazionismo laico che offrivano occasioni di svago più pericolose se non decisamente immorali. In Italia sin dall’inizio del ‘900, soprattutto nelle fila della Gioventù Italiana di Azione Cattolica e negli oratori salesiani, si incominciò a promuovere un associazionismo sportivo soprattutto come alternativa al monopolio dell’educazione fisica delle “società ginnastiche”, laiche e nazionaliste, colpevoli di favorire un approccio militarista ed estetizzante allo sport. Contrapponendovi un’idea dello sport inteso come mezzo e non come fine, come sosteneva padre Semeria (“Ci vogliono dei robusti per avere dei forti”), o Fratel Biagio, dei Fratelli delle Scuole Cristiane, come strumento di battaglia contro “l’ozio e la mollezza”, causa prima della degenerazione della gioventù. Uno sport come palestra per la formazione del nuovo militante cattolico, contro l’immagine del credente “fiacco e debole”, teorizzata da Nietzche e largamente presente nel senso comune anticlericale.
Oltre 10.000 “atleti cristiani”, federati nel 1910 nella FASCI (Federazione Associazioni Sportive Cattoliche Italiane), con 204 società, tutte solo “associazioni confessionali” e tutti solo giovani di “provata moralità pubblica e privata”, alfine di promuovere la “sana educazione fisica, non disgiunta da quella religiosa e morale”. Fenomeno sportivo benedetto da Papa Pio X nel grande raduno romano del 24 al 29 settembre 1908, occasione per benedire “tutti i vostri giuochi ginnastici, i vostri esercizi, il podismo, l’alpinismo e gli altri di simil genere”, per invitare a fuggire l’ozio e praticare la virtù della moderazione, senza “passare i limiti della prudenza”, “recar danno alla salute” e “trascurare le pratiche della religione”. Quale sport per i giovani cattolici? Uno sport, raccomandava la rivista “Stadium”, il giornale della FASCI fondato nel 1906, che non fosse “strumento in mano all’odio secolare che divide le razze”, ma una “santa opera di pace”; che non fosse l’esasperato agonismo che produce soltanto “giovani alienati che fanno della gara e della vittoria la loro esclusiva ragion d’essere”. Non lo sport troppo violento o che favorisca l’eccessivo contatto fisico dei giocatori, come il rugby o il pugilato, scrive il “Manuale dell’azione cattolica”. Nemmeno lo “sport borghese frivolo ed elegante”, ma uno sport “forte e lieto” che “irrobustisca i deboli”; un’attività fisica che renda il corpo “più docile e obbediente allo spirito e alle obbligazioni morali”; un “antidoto contro la mollezza e la vita comoda”. Meglio gli sport che richiedono “spirito di obbedienza”, “agli ordini di un comandante”, di quelli “lasciati alla libera iniziativa di un individuo”. Soprattutto uno sport che educhi la mente insieme al corpo, educhi all’ordine, alla padronanza di sé, al disprezzo del pericolo e che conferisca al militante cattolico sicurezza e autorevolezza.
Non il professionismo, “l’idolatria dei campioni “, la “specializzazione esagerata”, scriveva il giovane medico Luigi Gedda, sotto la supervisione di Agostino Gemelli. Non la preoccupazione del record che “toglie allo sport il respiro largo e le qualità cavalleresche”. Un “sport di molti, non eccellenza di pochi”. Senza tifo, che “sta allo sport come la superstizione sta alla religione”. Ma capace di avvicinare i giovani alle “più austere penitenze dei monaci”, poiché, come dice San Paolo, “Omnis autem qui in agone contendit, ab omnibus se abstinet”. Non dunque “l’atletismo”, ovvero la “cura esclusiva del proprio corpo”, “l’allevamento di pochi esemplari umani dotati di particolari qualità”, la precoce specializzazione in qualche attività sportiva per la preoccupazione esclusiva della vittoria e del record, pratiche condannate da Pio XI, il Papa alpinista, nella sua enciclica sulla Cristiana educazione della gioventù. Piuttosto l’alpinismo dove “non vi sono gare, emulazioni, invidie, egoismo, ma c’è la nuda roccia che punta il cielo, verso Dio”, come ribadisce don Antonio Cojazzi sulle pagine della “Rivista dei giovani”, il mensile dell’Istituto salesiano di Valdocco.
Perché l’alpinismo è “il più completo e organico degli sport”, assicurava il 29 marzo 1924, nel cinema scolastico di Ivrea, il prof. don Dioniso Borra, futuro vescovo di Fossano e presidente della sezione di Ivrea della “Giovane Montagna”, in una conferenza sul tema L’alpinismo educatore. Perché nell’alpinismo “si esplicano non solo le attitudini fisiche, ma anche quelle, ben più importanti dello spirito”: “L’educazione moderna, tutta dolcezza e latte e miele, pare si affanni a creare nel fanciullo l’illusione che la vita non sia quella dura cosa che è; pare si studi dal cancellare dal vocabolario la parola sacrificio, ed insegni l’arte di evitare anziché superare le difficoltà. Gli amari frutti di tale educazione li vediamo ogni giorno in tante giovinezze perdute che al primo contrasto che si frappone magari soltanto sulla via del loro capriccio hanno appena il vigliacco coraggio di dare mano alla rivoltella o al sublimato corrosivo. Contro questo disastroso decadimento del carattere, l’alpinismo è indubbiamente uno dei migliori rimedi, perché addestra gli animi all’esercizio della volontà”. Il “Club Alpino Cattolico” non vedrà mai la luce, ma la videro altre organizzazioni escursionistiche che si rifanno all’esperienza dei “preti alpinisti” e inventano un modello originale di “alpinismo cristiano”.
(continua)