Una storia un po’ da riscrivere 7. “L’alpinisme à l’eau de rose”
Quale alpinismo promuoveva la Chiesa? Non certo l’alpinismo estremo, “sfida ai limiti umani”, “rischio assoluto”, “gioco con la morte”, “esaltazione del corpo e palestra di uomini superiori”, secondo i modelli della scuola bavarese, poi fatti propri dal fascismo, che incominciavano a circolare a fine Ottocento. Nemmeno una concezione puramente sportiva, molto inglese, un alpinismo che si andava emancipando dalle giustificazioni scientifiche per diventare un “terreno di gioco”, una concezione edonistica della scalata espressa nell’iperbole del “parco giochi”, dove liberarsi dai vincoli sociali e tornare bambini. E nemmeno un’esplorazione di terre nuove, alla maniera di Mummery o del Duca degli Abruzzi, la “conquista del terzo polo”, come venivano chiamate le inesplorate montagne delle Ande e dell’Himalaya, dopo che Amundsen aveva raggiunto anche il polo sud e l’esplorazione del mondo era quasi finita.
L’alpinismo dei preti era innanzi tutto un alpinismo a dimensione locale. Si salivano le montagne della propria vallata. Per i lunghi viaggi non vi era tempo né denaro. Si narra che l’abbé Henry abbia visto il mare per la prima volta nel 1925, invitato a Genova dall’Unione Escursionisti Liguri. Tristissima è la fine del parroco di Alagna, don Giovanni Gnifetti, ormai anziano, invitato a Parigi da un gruppo di emigrati. Per la prima volta, dopo molte esitazioni, lasciava la sua vallata, ma si ammalò durante il viaggio e morì a Saint-Etienne, lontano dal suo Rosa.
Soprattutto l’alpinismo cattolico doveva essere uno strumento di educazione alla fatica e alla prudenza; un alpinismo senza rischi, senza record, senza fretta, senza sfide, senza primati. Una pratica che dell’alpinismo delle origini conservava il gusto per la ricerca scientifica (sono gli ultimi a portarsi in vetta il barometro e l’erbario). Un alpinismo ancora molto vicino a quello dei pionieri. Molto vicino alla pratica (non all’ideologia patriottica) del Club alpino francese (e all’ecologismo dei Naturfreunde austriaci), con le sue “carovane scolastiche” e la tensione morale che animava l’andare in montagna dei discepoli di Alphonse Joanne. Un’idea dell’alpinismo molto vicina a quella di Quintino Sella e dei fondatori del CAI: si va in montagna per costruire una gioventù “più robusta, più ardita, più virile”. per combattere le piaghe sociali dell’alcolismo e del gioco d’azzardo, la “mollezza del lusso” e “l’ozio della città”.
Un alpinismo che rifiuta rigorosamente il rischio gratuito, lo “stupido sacrificio del massimo dono di Dio, la vita”. «Mieux vaut manquer cent fois l’ascension d’une montagne que de perdre une seule fois la vie», ripeteva spesso l’abbé Henry. «L’alpinismo vero non è già cosa da scavezzacolli, ma al contrario tutto e solo questione di prudenza e di un po’ di coraggio, di forza e di costanza», amava ripetere Achille Ratti, il prete alpinista diventato Papa.
Ricordando, da anziano, la sua esperienza di alpinista, confessava il parroco di Valpelline: “Io non ho mai compiuto ascensioni difficili di 4°,5°,6° grado della scala delle difficoltà. Sono sempre andato in montagna per piacer mio e quando incontravo pericoli troppo grandi, fuggivo … Ho sempre pensato che la vita che il buon Dio ci ha donato è un bene così grande da non doverlo sacrificare bestialmente contro un pezzo di pietra o di ghiaccio senza utilità per nessuno”.
La morte in montagna era occasione per invitare alla prudenza e predicare un alpinismo come “récréation innocente et hygiénique”. Il 16 agosto 1899 scriveva il “Duché d’Aoste”, settimanale della curia vescovile, interrogandosi sui pericoli di un alpinismo che stava diventando di moda: «Comme homme et comme chrétien, je tiens à désapprouver hautement la manie de faire de l’alpinisme un destructeur de la vie humane[…] il me semble que c’est une vanité, une manie folle que de s’exposer à se casser le cou pour se procurer le mince plaisir de pouvoir faire écrire dans les journaux qu’on a foulé de son pied un roc encore inexploré».
E i risultati della prudenza, secondo l’abbé Henry, si vedevano. In oltre seicento ascensioni documentate da parte dei preti valdostani su cime superiori ai tremila metri, “il n’y a pas eu un seul accident”.
Fermo il principio della prudenza, rimaneva il problema di legittimare un’attività che qualche rischio presentava comunque. Valeva la pena correrlo, secondo l’abbé Henry, non per il piacere estetico, non per la ricerca del panorama, come ripete un luogo comune, ma poiché l’alpinismo “fortifie la santé, favorise la bonne armonie, délasse l’esprit, élève l’âme, remonte le moral, dispose à l’étude, est un agrément de la vie”. Naturalmente senza la pretesa “de faire des pointes vierges, des passages vertigineux”.
Un alpinismo “à l’eau de rose” lo definirà nel 1921 il curato di Saint-Nicolas, l’abbé Bionaz, in un articolo sul “Bulletin de la société de la flore valdôtaine”, del 1921. Sono quelle ascensioni compiute “sans trop de peines, sans de dangers, de frayeurs sur des sommités pas trop inabordables”. Per meritare il titolo di alpinista non è necessario fare il Cervino o il dente del Gigante, pendere sugli abissi e rischiare la pelle. L’alpinismo non è un affare riservato a pochi privilegiati dalla fortuna. Dolci pendii, dossi d’asino, valloni poetici sono il vasto campo dell’alpinismo “à l’eau de rose”.
I devoti della montagna, secondo l’abbé Bionaz, si dividono in due categorie: gli arditi e i dilettanti. I primi vanno in montagna per soffrire, i secondi per gioire. I primi hanno bisogno del rischio, di forti emozioni, di sofferenze per raggiungere il piacere. Quelle imprese, “a noi alpinisti di seconda classe”, non dicono niente. Siamo lungi dal lanciare anatemi. Applaudiamo con sincerità alle imprese ardite. Deploriamo quelli che fanno le bravate, gli incoscienti delle avventure folli, che partono senza preparazione, senza guide, lasciando i loro cari nella paura. La maggioranza degli amanti della montagna appartiene a questa categoria di dilettanti che si dà per campo d’azione la parte delle montagne “la moins dangereuse et la plus agréable”.
(continua)