Una storia un po’ da riscrivere 5. “Siano le montagne un itinerario di virtù”

Una storia un po’ da riscrivere 5.  “Siano le montagne un itinerario di virtù”
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Una storia un po’ da riscrivere 5. “Siano le montagne

un itinerario di virtù”

Nell’agosto del 1869, al Congresso straordinario di Varallo del Club Alpino Italiano, l’abbé Amé Gorret tracciava le linee di un uso pedagogico delle montagne come strumento di formazione dell’uomo, Le montagne erano “maestre di vita” perché dovevano sottrarre i giovani alla corruzione delle città e delle stazioni termali.

«Un des buts du Club Alpin c'est bien de soustraire les jeunes gens aux plaisirs, aux récréations et aux jouissances énervantes des villes qui nous fournissent ces vieillards précoces, ces figures étiolées, ces corps à flageolet qui m'amuseraient tant sous les portiques, sur les boulevards des villes et dans les stations thermales, si un profond sentiment de compassion et de pitié ne l'emportait sur le rire; c'est bien d'inspirer à ces jeunes gens le goût, le sentiment des puissantes émotions que donne la contemplation de la nature, l'amour des plaisirs fortifiants de la montagne, l'ardeur pour l'étude, le mépris des dangers[…] Le remède au mal se trouve sur la montagne».

Un concetto molto simile era ribadito qualche anno dopo dal giurista milanese Contardo Ferrini, Terzo Ordine Francescano, beatificato da Pio XII nel 1947, che alla passione per lo studio del diritto romano e bizantino alternava quella per le escursioni in montagna:

«Povera adolescenza che cresce rattrappita, misera di corpo e di spirito, senza idee e senza coraggio, che non conosce altro passeggio che il Corso, altri orizzonti che quelli del balcone, altri spettacoli di natura che quelli letti sui libri. Datemi quel ragazzo che cresce aderente come l’edera alle vesti materne privo d’individualità e di iniziativa, datemi quel ragazzo che io lo conduca per l’Alpi nostre. Impari a vincere in quegli ostacoli di natura le future difficoltà della vita …. Quel ragazzo tornerà uomo”.

L’idea affondava le sue radici nel grande progetto del cattolicesimo sociale ottocentesco di utilizzare l’attività fisica, in particolare le passeggiate e la ginnastica, come “mezzi efficacissimi per ottenere la disciplina, giovare alla moralità e alla sanità”. “Si dia ampia libertà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento”, aveva raccomandato Don Bosco negli anni Quaranta. Non si parlava ancora di montagna. Quelle dei primi salesiani erano ancora soltanto passeggiate nei boschi, ma qualche anno più tardi il presbitero Ferrante Aporti, promotore degli asili torinesi, don Leonardo Murialdo, il fondatore della Congregazione di San Giuseppe e rettore del collegio degli Artigianelli, il padre barnabita Francesco Denza, uno dei pionieri della meteorologia italiana, avviarono la pratica delle “carovane scolastiche”, le gite dei giovani in mezzo alla natura come forma di prevenzione del disagio giovanile. Negli oratori salesiani lo sport andò a occupare uno spazio sempre maggiore in virtù della sua capacità attrattiva nei confronti dei giovani e della sua capacità di incanalare l’aggressività entro regole socialmente accettabili.

Un’idea dell’andar per monti condivisa peraltro da molta parte del mondo laico, liberale e persino socialista, impegnato a contrastare il disagio delle nuove periferie urbane che nascevano dall’industrializzazione e dall’emigrazione contadina verso la città. Per il fondatore del Cai, Quintino Sella, l’alpinismo era strumento per combattere le piaghe sociali dell’alcolismo e del gioco d’azzardo, la “mollezza del lusso” e “l’ozio della città” e per costruire una gioventù “più robusta, più ardita, più virile”. Secondo il fisiologo Angelo Mosso, la vita di città “deprime lo sviluppo dei polmoni, dello scheletro e dei muscoli della classe dirigente e affievolisce la borghesia italiana che diverrà sempre meno atta al servizio delle armi”. Per antropologo Paolo Mantegazza le città erano “laboratori di infezioni, carceri per i polmoni e stufe per il cervello”. Persino alcune associazioni socialiste, tradizionalmente molto diffidenti verso l’attività sportiva (con qualche eccezione per la bicicletta) si posero l’obiettivo di portare sui monti “falangi popolari avide di bellezze sconosciute e sublimi”, attraverso un’opera di “propaganda alpinistica tra le classi lavoratrici” e la promozioni di “gite popolari”, al motto “per il monte, contro l’alcool”.

Portare i giovani in montagna divenne fra Otto e Novecento un elemento centrale dell’apostolato cristiano, un modo di promuovere un uso diverso del tempo libero che allontanasse dai pericoli dell’ozio, dell’alcool e dell’osteria, dalle tentazioni e dal vizio, di sublimare in un itinerario di virtù le pulsioni al sesso e alla violenza.

La montagna di fine Ottocento divenne sempre meno il terreno dove compiere esperimenti scientifici e sempre più un'opportunità di rigenerazione fisica e spirituale dell’uomo, un antidoto alla corruzione, una “maestra di vita”. Un luogo dello spirito da difendere dall’avanzata della “civilisation des loisirs” che avrebbe finito per corrompere la purezza della montagna. L’antitesi alla nuova moda della villeggiatura marina, “l’orribile spiaggia”, luogo “di tale miseria morale che tutto l’oceano non basta a lavare”, come scriveva nel 1931 la diffusa “Rivista dei giovani”, il mensile pubblicato a Torino dalla “Federazione degli ex Allievi di Don Bosco” e diretto dal preside dell’Istituto salesiano di Valdocco, don Antonio Cojazzi.

«Vorrei che la divisa del nostro alpinismo fosse quella che è stata racchiusa in un motto d’una città francese: “sint rupes virtutis iter”, siano le montagne un itinerario di virtù, raccomandava nel 1921 ai direttori di gita il teologo piemontese don Gino Borghezio, scrittore della Biblioteca Vaticana, fondatore della rivista dell’associazione cattolica “Giovane Montagna”. Non “una lotta contro la montagna”, ma una “lotta che l’alpinista compie, da solo o nella fraterna solidarietà della cordata, contro il peso del suo corpo che lo tira verso il basso, le sue debolezze e le sue miserie che gli impediscono di salire, per comprendere nella sua anima».

Un altro alpinismo, che nulla aveva a che vedere con la deriva sportiva e superomista dell’alpinismo novecentesco, con la “scuola di Monaco”, con l’alpinismo “eroico” e “acrobatico”, con le “pareti nord” e la “conquista del sesto grado”. Un alpinismo che incominciava a entrare in rotta di collisione con la curvatura nazionalistica e militarista (e la penetrazione massonica) che andava caratterizzando i club alpini di tutta Europa.

(continua)

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