Una storia un po’ da riscrivere. 3 Il clero valdostano e le origini dell’alpinismo
e le origini dell’alpinismo
Sin dagli anni Venti dell’Ottocento il canonico Georges Carrel (1800-1870), originario della Valtournenche, futuro priore di Sant’Orso e fondatore della sezione aostana del CAI, salì ripetutamente la cima del Monte Emilius (3.559 metri), da lui battezzato in onore della giovane Emilie Argentier che lo accompagnò nel 1839. Un’ascensione facile, ma che indicava una strada, un nuovo orizzonte per tutti, come scriveva sulla “Feuille d’Annonces d’Aoste” il 30 luglio 1843: “voyageurs, qui cerchez de nouveaux plaisirs, quittez la monotonie des plaines et visitez les hautes Alpes”; da lassù la contemplazione del panorama delle più alte montagne delle Alpi vi regalerà giorni “parmi les plus beau de votre vie”.
Non era un’eccezione, ma l’inizio di un fenomeno sociale di vaste proporzioni. Il canonico Balthazar Chamonin, ad esempio, originario di Valgrisenche, per molti anni parroco di Cogne, raggiungeva a partire dal 1839 la vetta della Tersiva (3.513 metri), poi la Becca di Luseney (3.506 metri), il Grand Tournalin (3.379 metri) e sfiorava la difficile punta della Grivola (3.969 metri). L’abbé Henry, parroco di Valpelline e primo storiografo dell’alpinismo cattolico, conta nel 1905 oltre 600 ascensioni sopra i tremila metri condotte solo dal clero valdostano dal 1839 al 1905. Chi ne volesse scorrere l’impressionante lista (tra cui non mancano le ascensioni dello stesso Vescovo, Mons Duc, “alpiniste dans le vrai sens du nom”), può facilmente ritrovare il prezioso Tableau des principales ascensions faites par les ecclesiastiques valdotains au dessus des 3000m. pubblicato nel volumetto L’alpinisme et le clergé valdôtain nel 1906 e poi costantemente aggiornato negli anni successivi.
E non erano tutte facili escursioni. La Becca di Nona, ad esempio, era esclusa dall’elenco dell’abbé Henry perché le sue ascensioni erano ormai così frequenti e così poco importanti “que je ne prends méme pas la peine de les signaler”. C’erano invece tutte le principali montagne della Valle, dal Bianco al Rosa, dal Cervino al Gran Paradiso. Negli anni Sessanta l’abbé Gorret (di cui si avrà modo di parlare a lungo nelle prossime puntate), si imporrà come uno dei più forti alpinisti italiani, tanto da essere arruolato dal Cai, accanto a Jean-Antoine Carrel e Felice Giordano, per vincere la “battaglia del Cervino”.
Perché tutto questo interesse della Chiesa per la montagna?
Come è noto molte civiltà hanno in comune un’idea sacra delle montagne: “preghiere della terra”, “dimore degli dei”, “punti di contatto tra la terra e il cielo”, luoghi dove fuggire “i rumori del mondo”, percorsi penitenziale dove espiare i propri peccati, Dall’Olimpo al monte Kailash, dal Sinai all’Uluru, dal Fuji all’Everest, le montagne sono state spesso considerate il luogo del “sacro”, della “separatezza”. Ma proprio per questo non venivano scalate, se non nell’aldilà, come il Purgatorio dantesco, o in forma simbolica, come nei Calvari dei Sacri Monti, per espiare i propri peccati o allontanarsi dalle tentazioni del mondo.
No, l’alpinismo non nasce della sacralità della montagna. Anzi, spesso perché dimora degli dei, le cime non dovevano essere calpestate.
Le origini dell’alpinismo cattolico sono altrove e hanno a che vedere con la cultura dell’ospitalità, con il dibattito scientifico del tempo e soprattutto con l’educazione dei giovani.
Quando i primi viaggiatori incominciarono ad andar per monti, nella prima metà dell’Ottocento, solo i curati di montagna potevano offrir loro un’adeguata accoglienza e una guida indispensabile al fuori dai consolidati itinerari del Grand Tour. Non c’erano alberghi decenti sul versante italiano delle Alpi. Si pensi che fino al 1850 i membri della famiglia Reale di Savoia soggiornarono presso la casa parrocchiale di Courmayeur quando si recavano ai piedi del Bianco per le cure termali.
Furono i sacerdoti il punto di riferimento locale dei viaggiatori colti di tutta Europa. Ad Aosta fu in particolare il canonico Georges Carrel (1800 - 1870), "l'ami des anglais", professore di matematica e di storia naturale al Collège di Aosta, botanico e meteorologo, promotore turistico della Valle d'Aosta alla cui iniziativa si devono l'organizzazione della professione delle guide e la creazione della sezione valdostana del CAI. Non c’è viaggiatore inglese che prima di venire in Valle non abbia scritto a Carrel per annunciare il suo arrivo e pregarlo di farsi guida.
Nel primo Ottocento, in tutto l’arco alpino, la Chiesa si assunse l’onere dell’ospitalità. Il teologo valsesiano don Giuseppe Farinetti, uno dei maggiori esploratori del Rosa, futuro vicepresidente del CAI, scriveva nel 1869 ai parroci invitandoli a dimostrarsi ospitali: “I curati saranno i primi a capire che il forestiero che viene da oltre l’Alpe non è un nemico della loro fede, né cerca di fare propaganda di credenze religiose, ma che è un uomo onesto, sovente generoso e benefico, cui l’amore per la bellezza della natura e per la scienza spinge fino a quelle remote e quasi ignorate regioni”.
Talvolta non era solo disinteressato sentimento di ospitalità, ma anche una forma di protezione della comunità locale dai “viaggiatori stranieri”, molti dei quali protestanti, uomini un po’ eccentrici che si permettevano di andare a passeggio nell’estate, quando la gente lavorava, e andavano in montagna la domenica, quando la comunità riposava ed era chiamata alla Messa.
Racconta l’abbé Henry ai giovani alpinisti cattolici torinesi, nel 1924, che, cinquant’anni prima, nei paesi di montagna, tutti andavano alla Messa domenicale. Poi erano arrivati gli alpinisti, “gran signori venuti dalla città” che davano il cattivo esempio andando in montagna la domenica e portando con sé guide del posto, costrette a saltare gli offici divini. E alcuni, come certi pastori protestanti, “facevano persino del proselitismo, indottrinando le nostre povere genti”, come era accaduto alla guida di Courmayeur, Henry Séraphin, che si era “pervertito” e si era “fatto protestante”. Era dunque assai preferibile, concludeva l’abbé Henry, che i contatti con i viaggiatori stranieri passassero sempre attraverso la mediazione dei parroci.
Alle origini dell’alpinismo cattolico, però, non c’era solo il dovere dell’ospitalità. Gravi e più serie minacce incombevano sulla fede cristiana e spingevano il clero ad andare in montagna.
(Continua)