Tra santi e sogni di pietra, dopo i campi e la fabbrica la passione per la scultura di Gino Daguin
Scultore per caso, ma con una carica innovatrice che ha reso la sua manualità e l’artigianalità delle sue opere quasi un’arte e sicuramente una passione, da esercitare nel tempo libero dopo il lavoro in fabbrica e nei campi. Gino Daguin ha vissuto una vita di fatica come pastore, contadino ed operaio, l’intaglio della pietra, nato come passatempo, è diventato presto una vocazione per dare voce ai propri pensieri ed alle proprie esperienze, tanto che è stato il primo a creare, da un materiale conosciuto ed utilizzato come la pietra ollare, delle statuine decorative, «piccole perché la pietra pesa...», come lui stesso spiega sorridendo: figure tratte dal suo mondo rurale e dall’immaginario religioso.
«Era la pietra stessa a suggerirmi se realizzare un contadino o un santo, cosa far emer-gere dalla materia grezza. La pietra ollare - racconta Gino Daguin - si presta, è una pietra dolce e malleabile, facile da lavorare, che si vendeva facilmente alla Foire de Saint Ours diffondendo così questo materiale nelle case dei valdostani, dove fino a quel momento era entrato solamente sotto forma di stufe e di altri utensili per la vita quotidiana, come ad esempio le pentole, non di oggetti artistici. Oltre che a Champorcher, la buona pietra ollare si trova ad Ayas, dove sarebbe opportuno che le dedicassero un museo, a Gressoney, in Valtellina e perfino in Calabria.»
Venuto al mondo il 3 febbraio del 1935 a Hône che durante il fascismo era stato unito a Bard, Gino è l’unico figlio di Margherita Dugros, classe 1899, e di Giovanni Daguin, nato nel 1892, entrambi contadini ed allevatori. Il suo ricordo più vivido della prima infanzia sono i mandarini, che una vicina di casa nel quartiere Clou Marchet, Teresa Asselle, originaria di Torino e sposata con Pietro Jacquemet, che Gino chiamava «tata Ginota», a sottolineare il rapporto affettivo che si era creato, gli portava sempre a Natale. «Ancora adesso, se penso al Natale, sento il profumo di quei mandarini che arrivavano da Torino e che noi non conoscevamo. Erano il Gesù Bambino di “tata Ginota”.»
Il piccolo Gino, oltre ad aiutare i genitori nei lavori agricoli e a fare il pastorello, pascolando le due mucche e le due capre di famiglia, ha frequentato la scuola elementare a Hône, dove gli alunni erano suddivisi in due pluriclassi. A partire dagli otto anni ha poi trascorso le estati all’alpeggio di La Manda a lavorare, patendo la nostalgia per la propria famiglia e per il proprio paese. Poi, dai tredici ai sedici anni, si è iscritto all’Avviamento industriale a Verrès, dove si recava quotidianamente in treno. «Ci tenevo ad ampliare le mie conoscenze per la vita futura, volevo studiare per capire meglio il mondo. Di quegli anni ricordo il direttore Eugenio Corniolo, che insegnava tecnologia ed era di Aosta, e il professore di italiano, storia e geografia Luigi Barone di Verrès.»
Terminati gli studi all’Avviamento industriale, Gino Daguin ha cercato un impiego in fabbrica, mentre comunque lavorava a giornata come campagnard, aiutando ai fieni, alla vigna e nei campi, finché non ha trovato un posto alla Edilmeccanica di Hône, dove producevano i carrelli per le gallerie dei cantieri. In officina ha imparato a saldare, ad elaborare i disegni tecnici ed a tagliare le lamiere con l’ossigeno. Dopo essere stato per tre anni in questa azienda, è partito per il militare nel novembre del 1956, frequentando il corso da allievo sottoufficiale di complemento alla Scuola Militare Alpina di Aosta per sei mesi, dopo i quali è stato inviato a Malles, nell’alta Val Venosta in Alto Adige per i restanti dodici mesi di servizio. Da lì è tornato a casa una sola volta in un anno e anzi considerata la paga da sergente «meglio che in fabbrica» e le prospettive di carriera negli alpini, avrebbe potuto continuare ma avendo i genitori già anziani, ha preferito rientrare a Hône, entrando all’Ilssa Viola, l’azienda di acciai inossidabili di Pont-St-Martin: per i primi cinque anni come saldatore elettrico, anche su diversi turni, poi In seguito è stato dipendente, fino alla pensione arrivata nel 1988, della centrale idroelettrica di Donnas.
La passione per la scultura è nata conoscendo Lucio Duc di Châtillon, maestro elementare a Arnad dove viveva. Poeta, scrittore, pittore e scultore, allievo di Louis Meynet di Antey. Lucio Duc aveva aperto una scuola di scultura a Donnas, dove Gino Daguin è andato per tre anni la sera, dopo il turno di lavoro, diventando nel tempo anche amico del suo maestro. «Lì ho iniziato ad innamorarmi della scultura in legno», ricorda Gino Daguin, da sempre affascinato dalla capacità degli artigiani di dare vita alla materia. «Insieme a Lucio, con il quale ormai eravamo diventati molto amici, un giorno abbiamo deciso di cercare la pietra verde a Champorcher, che era adatta a essere lavorata. Fu così che ho lasciato da parte il legno e ho iniziato a “grattare” la pietra, una novità assoluta. Mai avrei immaginato che da una pietra, sia pure speciale, si potesse ricavare qualcosa di mio gradimento. Non era un materiale considerato pregiato, mentre scolpire nel legno era una consuetudine risalente nel tempo. Sulla pietra ollare Lucio ed io siamo stati i primi, dei grandi innovatori per il periodo. Andavamo a cercare queste pietre così malleabili in una vecchia frana a Champorcher nel vallone del Rosier, nei luoghi dove in passato una cava era stata utilizzata per secoli: facevamo rotolare le pietre a valle fino alla strada e qui le caricavamo su un’Ape, per poi vendere i nostri manufatti alla Foire de Saint Ours ad Aosta e una settimana prima a quella di Donnas, ognuno con il proprio banco, prima le statuine di legno, quindi solo di pietra, inaugurando il filone della scultura decorativa.»
Il banco di Gino Daguin, che negli anni è diventato un punto di ritrovo abituale per gli appassionati, si trovava in via Porta Praetoria, vicino al grande portone di Palazzo Ansermin tra la Pasticceria Nelva e il negozio di calzature Apostolo.
«Nella scelta delle pietre da scolpire era importante esaminare con attenzione la compattezza e la venatura, oltre naturalmente alla forma, che di per sé - continua Gino Daguin - era fonte di ispirazione, consentendo di creare una scena o una figura umana che avevo nitida in mente, senza un bozzetto.»
«Era come se io dovessi strappare da una prigione eterna la figura che vedevo all’interno della pietra, liberarla dalla sua immobilità secolare. Riproducevo quello che osservavano intorno a me in campagna, i santi e le figure del presepe, dai pastori ai Re Magi, la Madonna, San Giuseppe e gli animali sempre accovacciati, perché le gambe troppo sottili poi rischiano di rompersi. Tutte sculture realizzate a mano con scalpelli e nessun macchinario. Le mie statuine piacevano sia ai valdostani sia ai lombardi, soprattutto varesotti, ed ai piemontesi. In cinquant’anni anni di fiera, ritrovavo i miei clienti fissi.» Tra questi anche il sociologo con casa a Courmayeur Giuseppe De Rita, presidente della Consulta nazionale dell’economia e del lavoro-Cnel dal 1989 al 2000 e del Centro studi investimenti sociali, da tutti conosciuto come Censis, dal 2007 dopo esserne stato fondatore e direttore generale.
Per Gino Daguin la produzione dei santi è frutto dei tanti anni nei quali da bambino è stato chierichetto, momenti che gli hanno permesso di osservare le statue poste nelle cappelle e di studiarne tutti i particolari. Santi soprattutto locali, che ha cercato di riportare a una dimensione umana, terrena, di santi-contadini o di santi-soldati, accanto alle figure ieratiche presenti sugli altari. Comunque il fil rouge nelle sue sculture è quello dei lavori e delle stagioni che scandivano la vita contadina: l’allevamento delle mucche, il trasporto del fieno, la vendemmia, la panificazione, il taglio della legna e le lavandaie nelle fontane dei villaggi. Tuttavia, nonostante Gino Daguin racconti lavori di fatica, nei personaggi che scolpisce prevalgono sempre la gioia e l’ottimismo, spesso sottolineati dalla musica, che per lui «rappresenta il piacere di stare insieme, anche nei momenti in cui le cose non vanno per il verso giusto».
In mezzo ai tanti santi ed ai racconti della vita agro-pastorale, si trovano dei draghi, figure insolite nell’artigianato valdostano. La storia di queste opere nasce dall’incontro di Gino Daguin con due personaggi americani accompagnati nel suo atelier dall’ingegner Sergio Gallo, suo amico e cliente: Merle Berk, all’epoca capo redattrice del «Lapidary Journal» di San Diego, e John Sampson White, allora responsabile della mineralogia al famoso Smithsonian Institution di Washington, che rimangono così colpiti dall’opera dell’artigiano da dedicargli un articolo sulla rivista statunitense. A distanza di qualche mese, Sergio Gallo gli porta una copia della pubblicazione con l’articolo a lui dedicato, e la mente dello scultore viene attratta dalle figure in copertina, due dinosauri, che scatenano la sua fantasia, tanto che li interpreta e li trasfigura in misteriose figure di draghi. Realtà e leggenda si intrecciano così in queste creature, che Gino Daguin poi fotografa ed invia ai due prestigiosi ospiti americani.
Attualmente ad Aosta, inaugurata sabato 16 ottobre scorso e visitabile fino a lunedì 16 maggio 2022, è allestita una mostra a lui dedicata - dal titolo «Gino Daguin, sogni di ruvida pietra», ospitata negli spazi della Collegiata dei Santi Pietro e Orso. «Questa è la mia mostra più importante, con ben centotrenta opere. In precedenza avevo partecipato a un’esposizione, nella vicina chiesa di San Lorenzo, insieme allo scultore, sempre di pietra ollare, Rino Collé di Issogne, che però non conosco bene, però siamo accomunati dalla scelta del materiale che sostiene la nostra passione.»
Gino Daguin si è sposato il 1 settembre del 1962 con Ines Danna Foy di Champdepraz con la quale ha vissuto a Hône e che gli ha dato due figli: Marco nel 1963, insegnante di matematica ed informatica all’Istituto tecnico di Verrès, e Anna nel 1966, parrucchiera a Hône. Marco ha una figlia Micaela di vent’anni e Anna è mamma della ventunenne Sofia Alessandro.
La prima Foire de Saint Ours alla quale Gino Daguin ha partecipato risale al 1978 con il banco della scuola di Lucio Duc. Poi ha attraversato circa cinquanta edizioni, vincendo spesso il primo premio per la pietra ollare, sia alla Millenaria che alla Mostra Concorso estiva. Dal 1979 ha partecipato per cinque edizioni al Salon International des Santonniers di Arles in Francia, come anche alla Mostra internazionale dell’artigianato di Firenze e alla mostra dei presepi di Milano. Sul personaggio Gino Daguin, all’inizio degli anni Novanta, il regista della Rai Alfredo Franco ha realizzato un documentario sull’arte di scolpire la pietra ollare: le riprese vennero realizzate anche sopra il villaggio di Rosier a Champorcher, a quota milleottocento metri, dove lo scultore andava a reperire la pietra.
«E’ come se io dovessi strappare da una prigione eterna la figura che vedo all’interno della pietra, liberarla dalla sua immobilità secolare». La frase di Gino Daguin, sul frontespizio del catalogo della mostra attualmente visitabile ad Aosta, sintetizza la poetica e le caratteristiche dell’arte dell’ottantaseienne scultore di Hône che ha espresso tanta innovazione pur nel solco della tradizione, costruendo e sicuramente arricchendo la storia dell’artigianato valdostano. Come molti altri della sua epoca, ha raccontato i ricordi e il vissuto della gente della nostra montagna, con l’obiettivo di trasmetterli attraverso le sue opere, conservate, ammirate e valorizzate in tantissime case e testimoni per sempre di un mondo quasi scomparso che oggi Gino Daguin non scolpisce più ma che conserva ancora preciso in ogni dettaglio nella propria mente.