Si è spento Albino Hugonin, da partigiano sopravvisse all’eccidio di Chesod del 1944
«Non siamo stati degli eroi. Abbiamo solo avuto il coraggio di fare la scelta giusta». Albino Hugonin era un uomo semplice, a cui non piaceva la retorica. Viveva per i suoi valori, che non ha mai tradito: la libertà, l’onestà, la fede. Di certo con i suoi funerali - celebrati martedì scorso, 23 gennaio, nella chiesa parrocchiale di Quart - la Valle d’Aosta ha dato addio a un testimone importante della sua storia e degli anni tragici della guerra. Il senatore Cesare Dujany, suo amico fin dalla giovinezza, lo ha ricordato con parole commoventi al termine della Messa, sottolineando come Albino Hugonin fosse un uomo che - negli anni della Resistenza partigiana - ha saputo lottare per la libertà, la democrazia e l’autonomia della Valle d’Aosta.
Era nato a Saint-Denis il 10 maggio del 1924 e a soli 15 anni aveva cominciato a lavorare alle miniere di rame di Petit Monde, a Torgnon. A 19 anni, il 24 agosto del 1943, ricevette la chiamata alla leva. Trascorse pochi giorni alla Caserma Testafochi di Aosta: nella confusione che seguì l’armistizio dell’8 settembre, come tanti suoi compagni scappò e tornò a casa, a Saint-Denis. Per qualche mese lavorò di nuovo alle miniere, poi - per non essere catturato e imprigionato come disertore - scelse la via delle montagne e della lotta armata con i partigiani nella 101esima Brigata Marmore con il nome di battaglia di Viola.
Faceva freddo la notte del 28 ottobre del 1944. La neve gelava le mani dei vivi e copriva pietosamente il sangue dei partigiani morti nella strage di Chesod. Quel giorno terribile Albino Hugonin lo chiamava “la marcia su Valtournenche”, con un riferimento alla Marcia su Roma avvenuta esattamente 22 anni prima. La Brigata Marmore, prevedendo un attacco da parte dei tedeschi, aveva minato un tratto di strada a Covalou e alcuni massi sopra Antey. La mattina del 28 ottobre, presa alla sprovvista, la Brigata non riuscì però ad accendere gli inneschi e a fare saltare le postazioni, così la colonna motorizzata dei nazifascisti passò agevolmente e i partigiani dovettero darsi alla fuga a piedi. Sentendo arrivare i nemici, si nascosero tra le rocce e i boschi ai lati della strada. Il gruppo più numeroso era più avanti e cercò riparo a monte della carreggiata, mentre Albino Hugonin con altri tre compagni, più arretrati, ebbero la possibilità di attraversare il torrente Marmore e di nascondersi sul versante opposto, tranne un ultimo compagno che si buttò in un torrente a cinquanta metri dalla strada e miracolosamente non fu visto. Accidentalmente uno dei partigiani che stavano più avanti scoppiò un colpo di fucile, che permise ai tedeschi di individuarli e di trucidarli. Si salvò solo il gruppetto di Albino Hugonin, che - dopo aver assistito alla strage senza poter fare nulla - si spostò poi nei boschi sotto Chamois e La Magdeleine e rimase all’addiaccio, sotto la neve, fino a quando, passato il pericolo, potè ricongiungersi con i compagni superstiti.
Dopo la Guerra, con la famiglia si trasferì in Francia per lavorare: dapprima in alcune fattorie della Marne, poi - insieme ai fratelli Lino e Arnaldo - nel cantiere della diga di Roselend, in Savoia. Si sposò con Maurizina Boson - mancata nel 2013 - nel 1960: si erano conosciuti a Quart perché lei, originaria del villaggio di Fornet, a Valgrisenche, dovette trasferirsi con la famiglia al Villair quando venne costruita la diga di Beauregard. Vissero in Francia fino al 1969, e lì ebbero i due figli, Marina e Bruno. Tornati in Italia, Albino Hugonin trovò infine impiego come bidello all’istituto Manzetti di Aosta, fino all’età della pensione.
Mite, semplice, legato ai valori dell’autonomia e all’uso del francese, finché la salute glielo ha permesso si è dedicato alla cura della casa, dell’orto e del territorio. E non mancava mai alle celebrazioni dell’Anpi a Chesod e a Trois-Villes, fedele fino all’ultimo a quei valori per cui aveva sempre vissuto.