“Résistance en Noir et Blanc”, una tavola rotonda chiuderà la mostra alla Biblioteca regionale

“Résistance en Noir et Blanc”, una tavola rotonda chiuderà la mostra alla Biblioteca regionale
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Una tavola rotonda sul tema della fotografia come documento storiografico chiuderà sabato 30 aprile, alle 17, la mostra “Résistance en Noir et Blanc 1943-1945”, organizzata dall’Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea inaugurata venerdì 15 aprile. Allestita nel Foyer della Biblioteca regionale “Bruno Salvadori” di Aosta, nell’ambito del “Projet Lieux Mémoire Résistance en Vallée d’Aoste” approvato dal Comité de promotion et de soutien aux initiatives pour la conservation de la Mémoire, l’esposizione raccoglie in 12 pannelli una scelta di fotografie che provengono dal Fondo fotografico dell’Istituto storico. Dal 2018 è in atto un’opera di restauro, affidato al fotografo aostano Enrico Peyrot, che ne cura la riproduzione digitale e il condizionamento conservativo. Le immagini testimoniano scene e persone che sono state protagoniste del movimento di Resistenza e di opposizione in Valle d’Aosta alle dittature e occupazioni nazifasciste ed è esposta anche come omaggio ai Resistenti e alle Resistenti valdostani in occasione della Festa della Liberazione del 25 aprile.

La tavola rotonda di sabato prossimo, nella Sala delle conferenze della Biblioteca regionale, vedrà la partecipazione, accanto alle autorità regionali, al presidente dell’Istituto François Stévenin, al vicepresidente Corrado Binel e al fotografo Enrico Peyrot, di una delle figure più importanti della storiografia contemporanea, il docente universitario Peppino Ortoleva. «Ortoleva - spiega la direttrice dell’Istituto storico Vilma Villot, che modererà l’incontro - già professore di Storia e teoria dei media presso l’Università degli Studi di Torino, è anche curatore di mostre, tra le quali, nel 2015 a Torino, quella dedicata a Primo Levi dal titolo “I mondi di Primo Levi”. Il professor Ortoleva si è dedicato inoltre all’analisi della fotografia e del cinema come documenti e all’uso dei media per la ricerca e la trasmissione della conoscenza storica. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo le più recenti: Il secolo dei media, Miti a bassa intensità e Sulla viltà. “Che cosa ci dice la fotografia di una guerra” è l’argomento su cui, nella tavola rotonda, ci aiuterà a riflettere».

A tal proposito il vicepresidente dell’Istituto storico della Resistenza Corrado Binel osserva che «Le immagini ci colpiscono, ci influenzano, formano la nostra visione del mondo e delle cose. Le immagini sono ormai pervasive e più lo sono meno noi ci poniamo davanti ad esse con uno sguardo critico, con un atteggiamento attivo e non passivo. Forse anche per questo motivo è necessario suggerire all’osservatore alcune riflessioni che consentano di guardare come in questo caso alla fotografia storica con la dovuta attenzione e il necessario distacco. Il riconoscimento della fotografia storica, e degli archivi fotografici come fonti storiche autonome è frutto di un lunghissimo percorso e inoltre altrettanto lungo è il percorso necessario per approdare ad una diffusa consapevolezza del fatto che la fotografia non è una riproduzione fedele della realtà ma una sua interpretazione. Non stupisce in questo senso la diffidenza degli storici nei confronti della fotografia come documento che possa avere una suo utilità e una sua attendibilità sul piano storiografico. Una diffidenza colmata anche dall’opera di alcune importanti figure della storiografia contemporanea come Peppino Ortoleva o ancora Adolfo Mignemi ed altri. Louis-Jacques-Mandé Daguerre, inventore del processo fotografico, diceva: “La fotografia è figlia di un raggio di sole e di un veleno”. Il veleno in questione erano i sali d’argento ma in verità quel veleno può anche essere la metafora della nostra difficoltà di interpretarne la complessità. Come disse André Kertész, uno dei maggiori fotografi del XX secolo: “Non è il soggetto a fare la fotografia, ma il punto di vista del fotografo”. Un riflessione che suggerisce quanto in un’immagine ciò che non si vede possa contare ancor più di quanto si vede. La fotografia, in questo senso, è una somma di “intenzionalità”. Cosa inquadrare e come, cosa escludere dall’immagine e inoltre le ragioni del fotografo e quelle eventuali del suo committente per non parlare dell’uso dell’immagine e poi ancora del suo significato anche simbolico che influenza o addirittura costruisce il nostro immaginario e la nostra memoria. Scrive Yannick Haenel in uno splendido romanzo. “…la mémoire, me disais-je, est le vrai nom du temps, et la mort ne peut rien contre elle”... E la fotografia è forse proprio questo spazio di vertigine che diventa una narrazione densa di infinti possibili esiti. Lo storico dell’arte Georges Didi-Huberman “con il suo spaziare nel tessuto temporale”, ci porta sulle tracce di Walter Benjamin e sulla sua famosa “immagine dialettica” secondo cui, quando guardiamo un’immagine, anch’essa ci sta guardando, diventa un oggetto dinamico, stabilisce un dialogo; una relazione attiva… dove “l’Autrefois rencontre le Maintenant, dans un éclair”. Forse per questo la fotografia è qualcosa di provocatorio e evocativo. Ci sfida; sfida la nostra capacità di guardare oltre, oltre la superficie delle cose, oltre ciò che appare, oltre le nostre emozioni… ed oltre ancora…»

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