«Quel giorno in piazza della Loggia c’ero anche io»: Roberto Mirteto, una vita che si intreccia con la storia

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Se parliamo di giornalismo è innegabile come la cronaca nera abbia sempre esercitato una forte attrazione nei lettori ma per raccontarla al meglio gli ingredienti necessari sono la passione e la competenza. Ed è proprio con queste prerogative che Roberto Mirteto ha sviluppato tutta la sua lunga carriera, iniziata poco più che ventenne e conclusasi dopo oltre trent'anni trascorsi sempre alla ricerca della notizia.

La data di nascita di Roberto Mirteto, il 24 aprile del 1945, è quanto mai significativa: arriva infatti un giorno prima dello storico 25 aprile del 1945, il giorno che viene evocato come quello della Liberazione dalla guerra e dall’occupazione militare tedesca. «Sono nato a Donnas e mi è stato raccontato che quel giorno il paese era praticamente disabitato perché si era sparsa la voce che sarebbe stato messo a fuoco dai tedeschi in ritirata, una voce poi fortunatamente rilevatasi infondata.»

Figlio unico di Giovanni Mirteto, classe 1915 di Arnad, e di Vittoria Chappoz di Donnas, anche lei del 1915, sposati nel 1942. «Papà Giovanni faceva il sarto e la mamma Vittoria era impiegata all'Ilssa Viola, l’azienda metallurgica di Pont-Saint-Martin che all'epoca era di primo livello, per poi diventare casalinga. L'infanzia l'ho passata a Arnad dove vivevamo nella casa di mia nonna paterna a Ville, uno degli agglomerati antichi del paese.»

«Il nostro capostipite da parte di papà, e parliamo della prima metà dell'Ottocento, era un personaggio sul quale giravano molte leggende. Si chiamava Pio Joly, soprannominato “du ris” cioè “del riso” anche se nessuno ha mai saputo il perché. Essendo Pio Joly di religione protestante, probabilmente calvinista, e non esistendo all'epoca ancora l’obbligatorietà della registrazione allo Stato Civile, di lui non si era saputo praticamente nulla fino a quando si era convertito al cattolicesimo, comparendo così sui registri parrocchiali. Si diceva che avesse una decina di figli sparsi per il paese, compresa la mia bisnonna Caterina Joly che si era poi sposata con Pierre Bonel, dal cui matrimonio è nata mia nonna Edwige Bonel, la mamma di papà Giovanni.»

E' interessante la storia che riguarda proprio la bisnonna Caterina Joly. «La famiglia di Pio Joly era piuttosto benestante. Il mio bisnonno, Pierre Bonel, arrivava dalle “traverse”, la parte alta di Arnad e per la precisione dal villaggio di Bonavesse. Aveva concluso il servizio militare e rientrava a casa, salendo verso la collina si era fermato in un deposito che affittavano proprio da Pio Joly, per vedere se dentro poteva esserci qualcosa di utile. In quel momento era in atto un’epidemia che si pensava fosse colera ma che probabilmente non lo era, e passando dietro alla casa dei Joly Pierre vide che nel piano terra stavano inchiodando la cassa dove era stato sistemato proprio il corpo di Pio, morto a causa dell’epidemia, e sopra nel fienile c'era sua moglie, Marie Rocher, in piena crisi con la febbre alta. Da militare il mio bisnonno aveva appreso qualche rudimento di igiene ed era certo che con le ortiche avrebbe potuto debellare la febbre. Dopo avere convinto Marie Rocher ad accettare le sue cure le aveva massaggiato tutto il corpo con le ortiche, ottenendo una reazione positiva tanto che Marie, felice del risultato, gli disse che se si fosse salvata gli avrebbe dato in sposa la figlia. Ovviamente all’epoca era impensabile per uno delle “traverse” sposare una benestante però alla fine Marie Rocher si salvò e una volta guarita fu lei a cercare Pierre per mantenere la promessa e concedergli in moglie la figlia Caterina.»

Dal matrimonio tra Caterina Joly e Pierre Bonel nacque appunto Edwige, la nonna di Roberto Mirteto, ricordata per un curioso aneddoto. «All'epoca a Brusson c'erano le miniere d'oro e nonna Edvige, andando a trovare la sorella, aveva avuto modo di conoscere i proprietari anglo-sudafricani di queste miniere e tramite questa conoscenza aveva avuto l'opportunità di trasferirsi in Inghilterra per otto anni, come “tata” alle loro dipendenze. Grazie a quel periodo trascorso oltre Manica negli anni della Seconda guerra mondiale nonna Edwige era una delle pochissime persone in Valle d’Aosta a parlare l’inglese, una circostanza segnalata dai servizi di informazione britannici che l'avevano indicata come punto di riferimento per i militari alleati. E proprio a seguito di questi eventi per due anni in casa sua ad Arnad aveva fatto base un ufficiale di collegamento inglese.»

Come in un romanzo rosa ecco apparire all'orizzonte della vita di nonna Edwige la figura di Pietro Mirteto, quello che sarebbe poi diventato suo marito, romanzo condito da una storia anche in questo caso quanto mai curiosa. «Il cognome Mirteto arriva da mio nonno Pietro che era un trovatello. Nato in una casa torinese il 27 giugno del 1886 era stato poi messo “alla ruota” e il cognome Mirteto era stato inventato per lui dal Brefotrofio di corso Spezia a Torino dove era stato depositato. In seguito fu affidato ad una famiglia di Arnad. Con il tempo sono riuscito ad accedere ai registri di quel brefotrofio e sono riuscito a sapere che la madre di nonno Pietro, la mia bisnonna, era una Levi di Torino. Chiaramente mio papà Giovanni da suo padre Pietro ha ereditato il cognome Mirteto.»

La sua infanzia Roberto Mirteto l’ha trascorsa a Arnad dove ha frequentato anche i primi anni di scuola. «Nei cinque anni di elementari ho cambiato quattro maestre, alcune delle quali erano anche parenti, visto che ad Arnad eravamo una famiglia piuttosto allargata, data la storia di Pio Joly. Nel 1955 ho iniziato le medie ma visto che quelle di Verrès, private, le avevano chiuse l'anno precedente e che l'alternativa era Châtillon - sarei dovuto partire con il pullman alle sei del mattino per rientrare non prima delle diciotto di sera a casa - abbiamo optato per il Collegio dei Salesiani di Valdocco, a Torino. Sempre a Valdocco ho frequentato anche i due anni di Ginnasio e quindi a Valsalice, sempre a Torino, i tre di Liceo classico. Ottenuta la maturità nel 1964 mi sono iscritto all’Università di Medicina ma poi ho cambiato facoltà passando a Giurisprudenza, che ho frequentato a Pavia per poi laurearmi con una tesi in diritto internazionale.»

Il 1964 è stato anche l'anno della chiamata alle armi. «In quel periodo, a seguito degli accordi post bellici il numero dei militari - racconta Roberto Mirteto - era limitato ed erano di leve molto abbondanti. Avevano quindi trovato una gabola che era il cosiddetto “Ram” cioè il congedo per “Ridotte Attitudini Militari” e il richiamo alle armi ci sarebbe stato soltanto in caso di mobilitazione generale. All'epoca erano previste due visite, quella di leva nel Comune di residenza e a seguire quella di selezione al Distretto Militare di Torino. La prima volta mi avevano fatto rivedibile perché mi ero inventato tutte le malattie possibili, mentre la seconda mi avevano mandato all'Ospedale militare. Dopo una radiografia al cranio ero salito in reparto in attesa della visita e ricordo che indossavo una giacca con all’occhiello il distintivo della facoltà di Medicina che in quell'anno frequentavo. L'ufficiale medico vedendolo mi aveva chiesto se ero in grado di dargli una mano ed io avevo risposto positivamente. Una volta arrivato il mio turno lo stesso ufficiale mi aveva chiesto se avevo voglia di fare il militare e alla mia risposta negativa, dopo essersi fatto una sonora risata, mi ha congedato a causa di una “netta velatura dei segni mascellari e frontali' , insomma mi aveva riscontrato una “ridotta attitudine militare”. Al contrario di mio papà che era andato militare nel 1936 nella Scuola Militare Alpina di Aosta, che all'epoca si chiamava Scuola Centrale Militare di Alpinismo, per rimanerci sino all'8 settembre del 1943 quando aveva disertato come tutti i militari che allora erano allo sbando, per poi diventare partigiano in una Brigata Garibaldi.»

L'inizio della lunga avventura da giornalista di Roberto Mirteto è partita da Pavia dove «C’era un ufficio di corrispondenza del quotidiano Il Giorno ed ero entrato come vice-corrispondente e mi occupavo anche di cronaca nera. Non ero contrattualizzato ma quell'incarico mi faceva comodo perché in un piccolo ufficio della redazione avevo potuto sistemare una brandina, trovando così il modo di non pagare l'affitto per un appartamento.»

Da quel momento la sua carriera ha preso la giusta direzione. «Nel 1974 sono diventato ufficialmente giornalista professionista e nel marzo dello stesso anno sono stato assunto a Il Giornale di Brescia, che era il più importante quotidiano regionale d'Italia e che all'epoca aveva una tiratura giornaliera di circa ottantamila copie. Sono entrato come praticante per poi passare professionista. A me è sempre piaciuta la cronaca nera e proprio nell'anno in cui mi sono trasferito a Brescia abbiamo vissuto dei fatti gravi e drammatici come l'attentato in piazza della Loggia, uno degli attentati più gravi di quegli anni di piombo nel quale morirono otto innocenti e almeno cento furono i feriti. Quel giorno, il 28 maggio del 1974, io ero lì con un collega a seguire una manifestazione sindacale e ricordo che la bomba era stata posizionata sotto i portici proprio dove c'era in quel momento la maggior parte della gente, che sotto quei portici aveva cercato riparo dalla pioggia. Ovviamente abbiamo seguito da quel momento in poi tutti i processi che ne erano derivati.»

Gli strumenti di lavoro in quegli anni erano sicuramente poco tecnologici. «Indispensabile per lavorare era la mitica macchina da scrivere Olivetti Lettera 22 e poi tanti taccuini per scrivere velocemente gli appunti. All'epoca bisognava andare sul posto e non c'erano telefonini o altri sistemi di comunicazione rapidi: ricordo che quelli che rimanevano stabili in redazione venivano chiamati bonariamente “culi di pietra”. Eravamo in quattro ad occuparci della cronaca nera ed eravamo sempre fuori, impegnati nelle classiche visite ai Carabinieri, agli ospedali, ai Vigili del Fuoco, in Questura, sempre alla ricerca di notizie e coprivamo la giornata sino alla mezzanotte e a volta anche fino all'una. Si doveva andare sul luogo dell'evento con il fotografo e al riguardo avevamo uno studio fotografico che lavorava quasi in esclusiva per noi e che riusciva a stampare le foto in mezz'ora, pronte per essere avviate alla stampa.»

Nel 1975 il matrimonio con Albertina Corsini, conosciuta proprio a Brescia. «Il 1° febbraio del 1977 è nato nostro figlio Andrea che oggi è un dirigente dell'Agusta Elicotteri e abita a Varese. Da un anno sono diventato nonno di Alberto, che a causa del Covid però non posso vedere. Mia moglie Albertina purtroppo è venuta a mancare nel 2017, lo stesso anno della perdita di mia mamma Vittoria.»

Terminata l'esperienza lavorativa a Brescia ecco il ritorno in Valle d’Aosta. «Nell'autunno del 1978 sono venuto ad Aosta e sono stato assunto in Rai, allora però c'era solo la radio, come redattore. All'epoca la redazione, che era in via Chambery, era formata solo da Gianni Bertone e Daniele Amedeo e dal caporedattore Mario Pogliotti ma si stava allargando. Quell'anno oltre a me erano stati assunti anche due praticanti, Orlando Perera e Pier Luigi Bertello. Io avevo la fortuna di parlare l'italiano, il francese e il francoprovenzale e un mio carissimo amico, il geometra e ora albergatore Luigi Fosson di Ayas, noto come cantautore con il nome di Luis De Jyaryot, diceva che ero l'unico giornalista a non farsi capire in tre lingue. Uscivamo spesso per servizio e usavamo per le interviste i registratori Nagra, uno strumento all'epoca all'avanguardia.»

«La televisione è arrivata nel dicembre del 1979 - evidenzia Roberto Mirteto - ma preferivo la radio, perché la tv non riuscivo a dominarla anche se per la televisione ho fatto diversi servizi anche all'estero e ricordo di avere accompagnato con il collega Giorgio Viana la banda musicale di Courmayeur/La Salle sul Kilimangiaro. Essendo un amante della cronaca nera rammento che facevo dei servizi per i telegiornali nazionali soltanto quando nella nostra regione capitavano eventi drammatici, come gravi incidenti in montagna o fatti importanti, come il caso di Cogne che ci aveva tenuti impegnati per molto tempo. Ricordo anche un’intervista fatta all'allora ministro delle Finanze, Francesco Forte, il 31 dicembre del 1978 da Breuil Cervinia. Parlando patois mi sono sempre occupato anche degli sport popolari con i passaggi televisivi e radiofonici in francoprovenzale.» Quando poi nacque La Voix de la Vallée del mattino, in onda alle sette, Roberto Mirteto scelse di esserne il conduttore - «non avevo molta concorrenza, visto l’orario» - diventando di fatto «la voce» che i valdostani ascoltavano come inizio di giornata. «Per mettere in onda il notiziario alle sette si iniziava di solito verso le cinque, cinque e mezza, ma a me non pesava, anzi mi piaceva.» Nel frattempo, nel 1984, per avvicinarsi alla sede Rai di Aosta acquistò un’abitazione al Villair di Quart, dove si trasferì con la famiglia e dove ha abitato sino al 2017, alla scomparsa della moglie Albertina. E’ allora che Roberto Mirteto matura l’idea di fare ritorno a Arnad, nella casa costruita nel 1949 dal papà Giovanni, lungo la statale 26, una delle prime realizzate nella zona.

Dopo un percorso lavorativo durato oltre trent'anni è arrivato il momento del meritato riposo. «Dal 2005, anno della pensione, non ho più scritto una riga perché in pensione bisogna cambiare attività. Mi piace leggere e sono un patito di storia in generale, poi ho l'orto intorno alla casa di Arnad che mi occupa parecchio. Mi diletto in cucina e mi piace sperimentare piatti nuovi. In passato ho fatto diversi sport senza eccellere in nessuno, dal rugby al canottaggio, alla pallavolo. In Valle d’Aosta ho praticato un po' di alpinismo e quando andavo a fare qualche servizio in elicottero per la Rai mi ricordo che Franco Garda, il responsabile del Soccorso Alpino, mi diceva sorridendo che quella montagna avrei dovuto farmela anche a piedi e non sempre e solo con l’elicottero.»

Però pur non essendo un agonista, Roberto Mirteto ha praticato a lungo un «quasi sport», come dice ridendo: «In effetti sono stato un autostoppista di professione, girando così praticamente tutta l’Asia e molti altri Paesi, considerato che da studente i soldi erano veramente pochi e la voglia di viaggiare e di conoscere tanta». Per un anno ha vissuto in Israele, dove ha preparato la sua tesi di laurea in diritto internazionale, poi discussa all’Università di Pavia, e dove ha abbracciato la religione ebraica, che lo ha sempre affascinato, nel ricordo di quella misteriosa bisnonna di cognome Levi che aveva partorito e poi abbandonato il nonno Pietro, dando inizio alla storia dei Mirteto.

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