Perché lassù? 6. I limiti del possibile

Perché lassù? 6. I limiti del possibile
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Perché lassù? 6. I limiti del possibile

Spostare i limiti del possibile. Da circa un secolo l‘alpinismo professionistico non cerca più di studiare la natura, contemplare panorami, avvicinarsi a Dio, migliorare la salute o difendere la patria, come fu per i primi centocinquanta anni della sua storia. L’alpinista-esploratore vuole compiere l’impresa, stabilire il record, essere il primo. Vincere. Non tanto contro la montagna, ma contro gli altri alpinisti.

Di sicuro molti lo negheranno citando straordinari esempi di solidarietà, ma da frequentatore della letteratura alpinistica (abituato purtroppo dalla vita universitaria a leggere sempre tra le righe), mi sono convinto che anche tra gli alpinisti (come tra i medici, gli avvocati, gli sportivi, gli storici) c’è una concorrenza spietata. Con la complicazione che, se nelle arrampicate in palestra si possono stabilire delle regole chiare, con tanto di classifica della difficoltà e valutazioni delle prestazioni, in montagna queste regole non ci potranno mai essere (ed per questo l’alpinismo non può essere considerato uno sport). Basta che cambi il tempo e la via più facile può diventare un incubo.

Spostare quindi i limiti del possibile. Anche a costo della vita. E’ questa l’eredità che ci ha lasciato Mallory e tutto l’alpinismo tra le due guerre. L’idea di una montagna come campo di battaglia dove si misura il valore dell’alpinista, un territorio da conquistare con ogni mezzo. Dapprima con megaspedizioni, assedi, squadroni di portatori, corde fisse, ossigeno, chiodi, materiali innovativi, farmaci (con importanti ricadute sulla ricerca scientifica e la vita quotidiana di ognuno di noi). Valeva tutto. Perforare spietatamente la roccia liscia con potenti percussori, ricoprire gli Ottomila di discariche a cielo aperto, tutti i mezzi che la tecnologia e la medicina potevano offrire. Prima sulle grandi pareti nord delle Alpi, poi sugli Ottomila himalayani, sulle “grida di pietra” della Patagonia, sulle vertiginose verticali della Josemite Valley. Vette inviolate e direttissime a goccia d’acqua, vie un tempo impossibili by feary means, conquistate dagli split, coi quali si poteva andare dappertutto, anche dove non c’erano appigli.

Tutto questo fino alla fine degli anni Sessanta, quando si diffonde una nuova coscienza ecologica, espressa con efficacia, nel 1968, da un giovanissimo Reinhold Messner in un articolo destinato a una risonanza mondiale : “L’assassinio dell’impossibile”. Un durissimo attacco contro l’uso dei chiodi a espansione. Mezzo sleale che “ha intorbidato la pura fonte dell’alpinismo”: “Dove un tempo contava l’ardimento ora ci sono i chiodi. Non è più il coraggio bensì la tecnica il fattore decisivo”. Per Messner l’alpinismo doveva ritrovare “il limite del possibile”, dare priorità al come piuttosto che al cosa fare. L’alpinista deve lasciare la montagna come l’ha trovata.

Nasceva “l’alpinismo della rinuncia”. Scalare senza ossigeno (considerato alla stregua di una droga), limitare l’uso dei chiodi alla semplice assicurazione e rinunciandovi come strumento di progressione, portare nelle vette himalayane lo “stile alpino”. Piccole squadre veloci. Talvolta in solitaria. Si incominciò a scalare per togliere i chiodi e le corde fisse. Per ripulire la spazzatura lasciata dalle precedenti spedizioni.

Fino alle ultime imprese estreme: Alex Honnold in free solo (senza chiodi, senza corde, senza assicurazione alcuna) sui mille metri di El Capitain nella Josemite Valley. Con un film, vincitore dell’Oscar (e questo ci può stare, tecnicamente è un film straordinario), applaudito anche al film festival della montagna di Trento, la massima assise italiana dell’alpinismo classico (e questo lascia invece qualche interrogativo).

Il problema non è tanto capire Honnold, che è materia da psicanalista (e che peraltro è uno straordinario professionista che prepara le sue imprese in maniera maniacale), ma le ragioni del suo successo. Siamo alla costruzione di un mito che è all’opposto dei fondamenti dell’alpinismo classico. Nel solco di Mallory, ma con l’aggravante della diretta mediatica. Non vorrei chiamarlo istigazione al suicidio, ma non siamo molto lontani dalle vecchie “Emozioni” di Lucio Battisti (“andare a fari spenti nella notte per vedere quanto è difficile morire”) o dalle sfide adolescenziali su internet, dal Blue Whale ai selfie sulle gru o sulle rotaie dei treni in arrivo.

Ripensando, cinquant’anni dopo, l’articolo di Messner, mi pare che il problema non sia stato l’assassinio dell’impossibile. L’impossibile non fu assassinato, ne vennero solo spostati i limiti, cambiando alcune regole del gioco. Andare senza ossigeno dove prima si andava con le bombole. Arrampicare in libera dove si arrampicava in artificiale. Andare d’inverno dove prima si andava solo d’estate. Ora si è arrivati al K2 invernale, ma in stile assedio e con ossigeno. Da qui al K2 invernale, in solitaria, senza ossigeno e in free solo, di margine per l’impossibile ce n’è ancora molto.

Quello che è cambiato è il rapporto con la tecnologia, l’abuso di tecnologia che ha caratterizzato l’alpinismo degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma non sono cambiati i canoni della narrazione eroica, non si è tornati alla montagna “maestra di vita”, nemmeno al buon vecchio “rischio calcolato” degli alpinisti vittoriani. Leggendo l’autobiografia spezzata di Daniele Nardi, La via perfetta, ci si trova completamente all’interno della mitologia eroica di Georges Mallory.

Mi chiedo, aldilà delle scelte del singolo sulle quali è sempre buona regola tacere, quanto giochi nell’alpinismo di oggi il mito dell’eroe, le pressioni dell’opinione pubblica (o dovremmo oggi dire della rete), la concorrenza dei colleghi, la legge spietata degli sponsor e dell’industria dello spettacolo, gli obblighi connaturati al professionismo (se non fai una cosa nuova, spettacolare e rischiosa perché dovrei pagarti?).

O meglio non lo chiedo a me stesso, che non avrei risposte, lo chiederò, nella prossima puntata, insieme ad alcune altre cose, a chi sicuramente ne sa tanto più di me. Agli alpinisti valdostani, e ne abbiamo di grandissimi, che spero abbiano voglia di condividere le loro riflessioni e la loro esperienza con i lettori di questo giornale.

….. (continua)

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