Perché lassù? 2. Oltre il possibile

Perché lassù? 2. Oltre il possibile
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Perché lassù? 2. Oltre il possibile

Chiaramente Nirmal Purja non è umano. Forse è uno dei milioni di dei indù, sceso in terra per guidare il riscatto del popolo sherpa. Una divinità guerriera, addestrata dalle forze speciali britanniche, che vede nella montagna il luogo del riscatto nazionale nepalese.

Non avevo ancora letto la sua autobiografia (uscita in Italia nel novembre del 2020) quando seguivo, a gennaio, durante il secondo insopportabile lockdown, l’ultima sfida del K2 invernale. E confesso che un po’ tenevo per il K2. Mi piaceva l’idea che un angolino della terra, almeno per qualche mese all’anno, custodisse ancora i suoi segreti. Una disperata difesa della natura contro l’arrogante invadenza dell’homo sapiens. Ma dopo aver letto Oltre il possibile ho capito che non c’era partita, nemmeno contro il K2. Una macchina da guerra, letteralmente, con tanto di droni e altre diavolerie militari, quella messa in piedi dal gurkha delle Special Boat Services, tra l’aprile e l’ottobre del 2019, per completare il suo Project possible: la scalata, in meno di sette mesi, di tutti i quattordici ottomila della terra (il record era di sette anni).

L’avventura è splendidamente narrata in un libro tradotto da Luca Calvi e pubblicato in Italia da Solferino. La storia di un ragazzo povero (ma appartenente all’aristocrazia guerriera nepalese, i mitici gurkha), che riesce a entrare, dopo una durissima selezione, nelle forze speciali britanniche. Abbandonate poi per un folle sogno. Sei mesi e sei giorni di prove infernali, tra valanghe e crepacci, ladri di ossigeno e scontri a fuoco, tragici incidenti ed eroici salvataggi, persino un ingorgo di alpinisti pericolosamente in coda verso la cima dell’Everest, con Purja che prende in mano la direzione del traffico (e foto che diventano virali). Sullo sfondo gli interessi commerciali e i giochi politici, il terrorismo e i cambiamenti climatici. Un romanzo avvincente che ti afferra dalla prima all’ultima pagina.

(Solo una timida osservazione, tanto Purja non legge “La Vallée”, che non vorrei mai discutere con un gurkha delle forze speciali. E’ bellissima l’idea del riscatto di guide e portatori che svolgono il lavoro sporco dell’alpinismo himalayano, ma si dovrebbe però anche riconoscere l’oscuro lavoro di qualche ghost writer, perché anche trasformare un’esperienza vissuta in un’appassionante scrittura non è da tutti e richiede tanto studio e tanta fatica).

Lasciando al lettore di gustarsi l’avventura, mi limiterò ad accennare a tre questioni sulle quali avremo occasione di ritornare.

I costi. Come si ottengono i soldi e qual è il prezzo da pagare agli sponsor? Un ottomila costa una follia tra viaggi, permessi, materiali, logistica e organizzazione di una squadra di appoggio (tra i 20.000 e i 200.000 dollari a seconda del tipo di spedizione e dei servizi offerti dalle agenzie). Per farne 14 ci vogliono milioni. Servono finanziatori e gli sponsor hanno un prezzo. Chiedono visibilità, vogliono lo spettacolo, la competizione, il sangue. Purja lo racconta e si difende:

“Qualcuno mi accusò di aver voluto esagerare, chiedendosi per qual motivo avessi urlato ai quattro venti i miei progetti quando invece avrei potuto avvicinarmi alla missione in modo molto più silenzioso …. Il problema era che finanziariamente stavo partendo da zero. Per ottenere i soldi avevo bisogno degli sponsor e per trovarli avrei dovuto mettere in piedi uno spettacolo che funzionasse sia mentre ero in montagna sia quando ero alla base”.

C’è ancora chi sostiene che l’alpinismo sia estraneo alla politica, che possa vivere al di sopra dei rumori del mondo. Come se lassù non ci fosse mai stata una “guerra delle bandiere”. Come se la battaglia del Cervino fosse stata soltanto un disputa sportiva e la parete nord dell’Eiger non fosse stato il primo campo di battaglia della gioventù nazista. Purja lo dice chiaramente. La sua battaglia è per il riscatto del Nepal, dei portatori Sherpa, per gli operai sfruttati e dimenticati della storia dell’alpinismo himalayano:

“Quando nel 2012 iniziavo a muovere i primi passi nel mondo dell’alpinismo osservavo impressionato i fortissimi scalatori che salivano le montagne della zona della morte. Le loro imprese venivano sempre celebrate … Andavo poi in cerca dei nomi dei ragazzi che avevano offerto il supporto … ma nessuno mai si preoccupava di chiamarli per nome”.

Infine, il gioco con la morte. In lui non c’è nessuna nobile giustificazione, scientifica, religiosa o estetica. Non è “bello” arrampicare a ottomila metri. Conta solo vincere, il record, diventare un eroe. E per questo, come per Achille, vale la pena anche di morire:

“Meglio morire che essere un codardo. Mi piaceva l’idea di andarmene quando ero ancora nella trentina. Tirare avanti fino a ottant’anni e passa, ovvero fino a un’età in cui sarei stato incapace a badare a me stesso, aveva poco fascino per me. Meglio finirla mentre stavo ancora andando al massimo”.

Un’idea che si ritrova spesso nel Novecento, tra gli “arditi” della Grande Guerra, nell’alpinismo eroico degli anni Trenta, tra i “ragazzi di Salò” o tra i moderni praticanti di sport estremi.

E dire che un tempo la montagna era “maestra di vita”, “virtutis iter”, come dicevano i preti che portavano i ragazzi sui monti.

Come si è giunto a questo? Cos’è rimasto dei tempi in cui Balmat e Paccard salivano la cima del Bianco trascinando termometri e barometri per dare un senso alla loro fatica? Di quando l’abbé Gorret e i fondatori del CAI dicevano che l’alpinismo serviva a sottrarre i giovani “ai piaceri della città” per farli diventare “uomini”?

(continua)

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