Partigiano Yves Francisco, una vita avventurosa nel ricordo del figlio Elvis
Rispetto all’articolo «Addio al partigiano Yves Francisco di Verrès, che si salvò grazie agli sci di Primo Levi» riceviamo e pubblichiamo dal figlio Elvis alcune informazioni aggiuntive sulle vicende di Francisco.
Mio padre fu arrestato con Primo Levi ad Amay ma di lì a poco si separarono e non si rividero mai più. Dovette presentarsi al distretto militare affinché liberassero i miei nonni e sua sorella, ostaggi tenuti in prigione. Fu mandato alla caserma Testa Fochi. Lì rimase fino a quando i tedeschi decisero di trasferire i soldati di leva in Germania. Fuggì la notte che precedette la partenza del convoglio, eludendo la pattuglia di ronda alla caserma. Si rifugiò per un breve periodo ad Amay e poi si unì, fra i primi, alla 101esima Brigata Marmore. Il 28 ottobre del 1944, giorno del suo ventesimo compleanno, fu mandato da Tito, comandante della brigata, a difendere il posto di blocco di Covalou, presidiato dai partigiani e sotto attacco da parte delle truppe nazifasciste che tentavano di riconquistare la Valle del Cervino. Ebbero la peggio e dovettero ritirarsi, fuggendo a ritroso verso Valtournenche. Fu in quella occasione che diciotto partigiani persero la vita in uno scontro a fuoco in località Chesod, nel comune di Antey-Saint-André. Mio padre si rifugiò in località Petit Monde nel comune di Torgnon dove trascorse la notte, sotto un’abbondante nevicata. Il giorno seguente raggiunse Amay. La 101esima Brigata Marmore fu sgominata. Nei giorni seguenti andò a Saint-Jacques in Val d’Ayas, ritrovo di persone che volevano rifugiarsi in Svizzera. Seppe che all’alba del giorno seguente sarebbe partita una comitiva diretta oltralpe attraverso il vallone delle Cime Bianche. Il giorno stesso ritornò ad Amay, prese gli sci di Primo Levi ed altro materiale per affrontare il viaggio. All’alba del giorno seguente si unì al gruppo ed iniziò l’ascesa verso Plateau Rosa. Lì trascorse la notte ed il giorno seguente espatriò con una rocambolesca discesa, guidato dalle guardie svizzere. Con lui mi pare ci fossero un cecoslovacco e forse due militari italiani. Fu uno di loro che furbescamente chiese a mio padre lo scambio degli attacchi. Quelli montati sugli sci di Primo Levi erano i Kandahar con possibilità di bloccare la talloniera per affrontare la discesa. Quelli che mio padre ingenuamente accettò ne erano privi. Capì scendendo verso Zermatt il raggiro, quando alla prima occasione finì con la testa nella neve.
Trascorse in Svizzera l’inverno del 44 e rientrò nella primavera del 45. In quel periodo soggiornò dapprima nel cantone tedesco, in qualche località vicino a Basilea sul fiume Reno. Poteva vedere i militari tedeschi sulla riva opposta e questo fatto non lo tranquillizzava. Costruiva baracche di legno e, a distanza di tempo, si convinse che erano destinate ai campi di concentramento. Poi fu trasferito dalle parti di Losanna dove continuò a svolgere il suo mestiere di falegname.
L’episodio di Maria Josè mi giunge del tutto nuovo. Ricordo che l’unico racconto che la riguarda sia quello relativo ad una visita che ella fece ad un “albergo” per rifugiati che ospitava mio padre ed altri partigiani della Val d’Ossola. Questi ultimi la accolsero a suon di fischi. Quando rimpatriò, percorrendo il tragitto inverso, ritrovò a Zermatt gli sci di Primo Levi, naturalmente privi di attacchi Kandahar.