Padre Giancarlo Todesco e il suo Senegal dove la Messa può diventare una festa

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Domenica prossima, 23 ottobre, sarà la 96esima Giornata mondiale per le missioni. Sabato 22 sarà proposta una veglia di preghiera a partire dalle 20.30 nella cappella del convento delle suore di San Giuseppe ad Aosta. Per l’occasione abbiamo intervistato padre Giancarlo Todesco, missionario oblato di Maria Immacolata dal 1960. Nato ad Aosta nel 1941, da più di 50 anni ha vissuto la sua missione all’estero, tra Laos, Senegal, Guinea Bissau e di nuovo Senegal dove si trova attualmente, per predicare il vangelo e migliorare le condizioni di vita di tante persone. Tra pochi giorni ritornerà laggiù, dopo aver passato alcuni mesi nella parrocchia di Maria Immacolata ad Aosta.

Padre Todesco, quando scoprì la sua vocazione al sacerdozio?

«Ritornando alle origini della mia vocazione al sacerdozio, penso che l’esempio, la fede, la fiducia nella provvidenza dei miei genitori ne siano la causa principale. I loro consigli, pur senza diplomi, valevano quanto un trattato di teologia morale. Poi, l’incontro e l’ascolto delle testimonianze dei miei confratelli missionari nel Laos, in una vita donata totalmente ai poveri pur in grandi difficoltà mi hanno affascinato ed ho fatto anch’io la scelta: “È lì che il Signore mi chiama, fra i poveri, fra i più abbandonati, fra quelli che non hanno voce, con i quali condividere quanto ho ricevuto da Dio”.»

La sua prima tappa missionaria fu nel Laos, dal quale poi lei e altri padri oblati veniste espulsi dai guerriglieri filocomunisti del Pathet Lao, che vi derubarono di tutto e profanarono la chiesa distruggendola.

«Sì, l’esperienza dei primi sei anni di missione nel Laos è stata quella che ha marcato maggiormente la mia avventura missionaria. Ho gustato la gioia della condivisione, del darmi tutto a loro, pur nelle sofferenze delle privazioni e nei pericoli della guerra. Ho sperimentato quanto sia vero ciò che ha detto S. Madre Teresa di Calcutta: ‘il povero non ha tanto bisogno di pane, ma soprattutto di amore”. L’amore resta radicato nel cuore, anche se ti cacciano dal Paese».

In una sua recente omelia lei ha parlato dell’esperienza con i lebbrosi.

«Ero con i lebbrosi quando abbiamo saputo dell’espulsione. Era il giorno dell’Assunta del 1975. Avevamo scelto di viverla con le persone più povere del mondo, assicurandole che nessuna espulsione avrebbe potuto scalfire la nostra unità, pur senza più poterci vedere. Con le lacrime agli occhi, il più anziano di loro prese la parola dicendoci: “Sarà molto duro per noi vedervi partire. Chi potrà ancora curare le nostre piaghe? Chi potrà ancora condividere la nostra vita? Ma vi siamo immensamente grati per l’amore che ci avete radicato nel cuore. Quello nessuno potrà rubarcelo. E ci darà ancora la forza per aumentare la nostra fede in Dio che continuerà ad amarci come suoi figli. Dio vi ricompensi! Grazie!»

E in un’omelia di alcuni anni fa lei disse che in missione la Messa è una festa, può durare anche un paio d’ore e ci sono persone che percorrono diversi chilometri per parteciparvi.

«Sì, la Messa è una festa. Siamo invitati ad un banchetto, dove lo Sposo distribuisce gratuitamente i suoi doni e invita a condividerli. Il grazie si incarna nelle culture ed espressioni di ogni popolo. In Africa si manifesta nella loro cultura: si ascolta, si applaude, si canta, si danza, si condivide, ci si sente famiglia, ci si sente Chiesa, felici di mostrare e accrescere la fede nell’ascolto delle Parole dello Sposo e nella espressione del grazie. L’africano non è schiavo dell’orologio, il valore della persona è molto più importante. Così durante la messa non si annoia ma fa festa!».

La chiesa San Francesco d’Assisi ad Antula in Senegal è stato il sogno realizzato della sua vita missionaria. Cosa ricorda del giorno della consacrazione della chiesa il 30 dicembre del 2018?

«Sono convinto che questo avvenimento ha segnato un passo di maturità nel cammino di fede della comunità. “Padre, abbiamo bisogno di sentire Gesù presente fra noi, entrare e potergli offrire le nostre gioie e soprattutto le nostre sofferenze, essere certi che è lì presente davanti a noi che ci accoglie ad ogni momento della nostra giornata, ci ascolta, asciuga le nostre lacrime e cura le nostre ferite”. Sono le parole che mi hanno maggiormente colpito, commosso e spronato a fare di tutto pur di riuscire ad offrir loro questa dimora della presenza di Dio. Certo, costruire un bel tempio al Signore è stato un grande segno di fede. Ma ora occorre costruirne un altro molto più importante, non fatto di marmi e di cemento, ma di fratelli riuniti nella preghiera che testimoniano con la loro vita di credere che si è Chiesa viva solo se saremo fedeli al comandamento dell’amore lasciatoci da Cristo».

Padre Todesco, perché il titolo ”Al primo raggio di luce: Pace!” del libro che racconta la sua vita in missione?

«E’ l’augurio africano della buona notte della etnia Seerer: ”Che i tuoi occhi si aprano (l’indomani) al primo raggio di luce nella pace.” E’ l’augurio che ogni mamma fa al suo bambino prima di accompagnarlo a letto. E’ augurargli che passi nella pace la notte e l’indomani sia marcato dalla pace fin dal primo raggio di sole. E’ un po’ quello che vorrei trasmettere ai lettori, rileggendo questo lungo trascorso di vita missionaria, fatto di gioie e sofferenze, vittorie e sconfitte, di temporali e di arcobaleni, di diesis e di bemolli, ma sempre aperto alla speranza di un’alba che si apre quotidianamente nella pace del primo raggio di sole. Ed è ancor più vero tenuto conto che ormai sono verso la fine del mio romanzo di vita missionaria, dove tramonto alba e raggio di sole metteranno in rilievo, lo spero, solo l’arcobaleno dell’amore».

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