Morti per Covid nelle case di riposo La Procura chiede l’archiviazione

Morti per Covid nelle case di riposo La Procura chiede l’archiviazione
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La Procura di Aosta ha chiesto l'archiviazione dell'inchiesta, aperta un anno fa, sui contagi e le morti per Covid-19 avvenute in alcune case di riposo valdostane nei primi mesi del 2020. Erano 13 gli indagati, a vario titolo, per epidemia colposa e omicidio colposo.

Risultavano inquisiti per omicidio colposo ed epidemia colposa in merito a fatti avvenuti tra il marzo e l’aprile 2020 riguardo alla gestione del Refuge Père Laurent di Aosta don Elio Vittaz e Massimo Liffredo - rispettivamente legale rappresentante nonché datore di lavoro e coordinatore -, per la microcomunità Foyer de vie di Doues l’ex presidente dell’Unité des communes valdôtaines Grand Combin Joël Creton, il segretario Fulvio Bovet e Lorella Ferrero - all'epoca rispettivamente legale rappresentante, datore di lavoro e responsabile della struttura -, per la Piccola casa della Divina Provvidenza Cottolengo di Saint-Vincent Carmine Arice e Clara Cigna - nell’ ordine legale rappresentante e direttrice -, i medici Franco Pino Brinato, Mauro Bonino e la direttrice della Casa protetta per anziani di Antey-Saint-André Manuela Bolognesi per la morte di un ospite della struttura della Valtournenche.

Erano stati indagati solo per epidemia colposa, riguardo a un focolaio tra il febbraio e il marzo scorsi all’interno Centro riabilitativo terapeutico Residenza Dahu di Brusson, Ivonne Cheney, Nicoletta Spuria, e Ugo Zamburru, rispettivamente in qualità di dipendente della struttura, coordinatrice e direttore sanitario.

Il pm Francesco Pizzato ha chiesto al Gip l’archiviazione del fascicolo nei confronti di tutti i 13 indagati.

La Procura invece non ha rilevato già in origine criticità riguardo alla gestione dell’Istituto clinico Valle d’Aosta di Saint-Pierre e del reparto di Psichiatria dell’Ospedale di Aosta. Infatti, in quest’ultimo la corretta divisione degli spazi ha consentito di isolare il solo paziente positivo monitorato, asintomatico all’accesso e alla clinica di Saint-Pierre - dove sono morti, tra il 1° marzo 2020 e il 5 maggio 2021, 25 pazienti, 19 dei quali positivi - le ispezioni hanno rilevato compartimentazione degli ambienti, dotazione dei dispositivi e formazione del personale conformi alle norme.

Non è andata così altrove. Criticità, dalle indagini, ne sono emerse in diverse strutture, in alcuni casi anche definite gravi. Però, relativamente al delitto di epidemia colposa - sottolinea il sostituto del Procuratore capo Paolo Fortuna - nelle 11 pagine dell’istanza al Tribunale, «La giurisprudenza di legittimità ha a più riprese evidenziato che “non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione”», mentre l’inchiesta «Ha evidenziato esclusivamente condotte colpose di tipo omissivo». In merito ai decessi degli ospiti, invece, «Non è possibile accertare con certezza la sussistenza di un nesso tra le condotte colpose dei responsabili delle strutture e tali eventi». A tal proposito gli inquirenti evidenziano che «Le conoscenze scientifiche attualmente disponibili non offrono dei sistemi per individuare con certezza il momento del contagio di ogni singolo soggetto, né di identificare le modalità con cui è avvenuta l’insorgenza della malattia». Un ragionamento da cui si desume che «Non è possibile stabilire al di là di ogni ragionevole dubbio» che il contagio sia riconducibile «A specifiche condotte colpose degli indagati». Non è poi secondario il fatto che «I responsabili delle strutture si sono trovati ad affrontare una pandemia che ha colto impreparato il mondo intero». A complicare il quadro, pure l’impossibilità di sottoporre le vittime ad autopsia «A causa della situazione di grave emergenza verificatasi nella primavera del 2020» e perciò «Non è possibile escludere in termini assoluti che tali individui, anche nei casi di accertata positività al Covid-19, siano deceduti per altre cause e che, dunque, il virus, pur essendo presente nel loro organismo, non abbia giocato un ruolo nel determinismo del decesso».

Il Refuge Père Laurent

Gli accertamenti, successivamente estesi ad altre strutture, erano stati avviati al Refuge Père Laurent di Aosta, di proprietà della Diocesi, dove su 122 ospiti ne sono deceduti 73, per 36 dei quali è stata accertata la positività. Il periodo del contagio, in base ai controlli dei carabinieri del Nas, è stato individuato tra il 12 e il 20 marzo del 2020, e su di esso ha influito «La presenza di alcuni pazienti (15 su 105) con sintomi Covid non adeguatamente isolati al momento della consumazione dei pasti dagli altri», la «Permissività iniziale di visite dei parenti», alla quale va aggiunta «Una certa indulgenza dimostrata almeno in una occasione in data successiva» e la «Sottovalutazione del rischio di propagazione del virus da parte della direzione». A supporto di quest’ultima affermazione, vi è l’invito al personale, in una fase iniziale, ad utilizzare i dispositivi di protezione senza eccessiva enfasi, affinché visitatori, parenti e utenti non si preoccupassero.

Il Foyer de vie a Doues

L’inchiesta ha poi coinvolto il Foyer de vie di Doues, la cui gestione è a carico dell’Unité des communes Grand Combin, dove, durante l’emergenza epidemiologica del 2020, sono stati 5 gli anziani positivi al Covid-19 a non avercela fatta. Quali le criticità riscontrate? Vanno da una «Iniziale difficoltà di approvvigionamento» dei dispositivi di protezione personale alla «Non osservanza delle corrette procedure di vestizione e di svestizione». In tal senso, i magistrati annotano che «I camici venivano utilizzati inizialmente solo in caso di soggetti positivi, in alcuni casi le mascherine ffp2 sono state riutilizzate almeno un’altra volta, dopo averle sanificate con alcool». A ciò va aggiunto che una operatrice socio sanitaria sarebbe «Entrata in alcune occasioni nelle stanze degli utenti sospetti e in quelle di altri utenti senza aver effettuato alcuna previa svestizione». Come si è diffuso il virus nella struttura a Doues? «Si può solo supporre che sia avvenuto per il tramite del personale operante all’interno della struttura ovvero tramite pazienti positivi asintomatici» ipotizzano gli inquirenti.

Il Cottolengo di Saint-Vincent

Carenza di personale, ritardi nel separare gli spazi e difficoltà nel reperire Camici, quanti e mascherine. È questa, secondo la Procura, la situazione che si era verificata a Saint-Vincent nella Piccola casa della Divina Provvidenza Cottolengo. Qui su 14 ospiti deceduti 10 sono risultati positivi. I primi sintomi sono stati riscontrati su 2 utenti il 17 marzo 2020. Dagli accertamenti è risultato che 12 dipendenti, a partire dal 9 marzo, non hanno prestato più servizio. Spazi separati e luoghi di isolamento dei pazienti positivi sono stati predisposti soltanto dal 20 marzo e sui è dovuto attendere il 1° aprile afffinché a operatori socio sanitari e personale polivalente fosse dato in dotazione un “kit Covid”, dato che dal 19 al 30 marzo i dispositivi di protezione consistevano in 2 mascherine riutilizzabili.

Antey-Saint-André

Negli accertamenti alla Casa protetta per anziani di Antey Saint-André - dove si sono contati 14 morti, 5 dei quali positivi al Coronavirus - l’attenzione degli investigatori si è concentrata sulla morte di un ospite, avvenuta il 1° aprile dell’anno scorso, le cui condizioni sono precipitate nell’arco di 24 ore. Infatti l’uomo, debilitato da diverse patologie, benché avesse manifestato una temperatura corporea di 37.5 gradi centigradi e fatica nella deglutizione era stato lasciato in stanza «Per 2 giorni con un paziente di cui era stata da poco accertata la positività» al Covid. Una condotta definita dal Pm «Gravemente colpevole», Impossibile, però sostenere senza dubbio alcuno che il paziente avesse contratto il virus, dato che non erano stati appurati i motivi del repentino aggravarsi del suo quadro clinico. Questo in quanto la guardia medica intervenuta nella struttura «Ne aveva constatato il decesso senza, nondimeno, sapere indicare la causa della morte» e la salma è stata cremata, impedendo la riesumazione. Oltretutto l’ultimo tampone effettuato, il 23 marzo, aveva dato esito negativo. Tuttavia la Procura rileva la «Mancata adeguata separazione tra pazienti positivi e negativi» e la «Condotta poco professionale del medico della struttura» che «Secondo quanto riferito dal personale» in più occasioni si sarebbe reso irreperibile anche quando avrebbe dovuto esserlo. Non si è potuto risalire al “paziente zero” all’interno della struttura e chi abbia veicolato la malattia tra gli ospiti.

La Residenza Dahu a Brusson

Criticità «Emblematiche di un consistente deficit organizzativo-gestionale» è, invece, la situazione riscontrata dalla Procura al Centro riabilitativo terapeutico Residenza Dahu di Brusson, dipendente da una cooperativa sociale con sede a Padova. Carenze che per il Pubblico ministero «Appaiono senza dubbio di estrema gravità» e «Risultano espressive di una totale inadeguatezza nella gestione della pandemia da parte dei soggetti apicali della struttura» . Sotto la lente di ingrandimento della magistratura sono finiti 6 recenti casi di contagio tra gli ospiti. Le inadempienze riscontrate «Risultano ancora più gravi, - osservano gli inquirenti - laddove si consideri che sono state tenute anche a più di un anno di distanza dall’esplosione della pandemia», visto che il focolaio risale allo scorso maggio. Sempre secondo la Procura, le criticità, «In alcuni casi, sono ricollegabili a condotte gravemente colpose tenute personalmente dal Direttore sanitario del Centro». Quest’ultimo sarebbe stato notato a più riprese «Con mascherine non adeguatamente indossate» e, «Secondo alcune testimonianze, è entrato» nel nucleo Covid «Indossando solamente la mascherina chirurgica e portandosi appresso un’altra paziente». Infine, è stata vagliata la «Non corretta gestione del rientro in struttura» di un’ospite «Risultata positiva all’esito di un tampone rapido cui si è sottoposta al suo ritorno da un’uscita», oltre al «Non adeguato isolamento del percorso (corridoi) per raggiungere l’area destinata ai pazienti positivi».

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