Montagne ricche/montagne povere 5. L’oro italico
Montagne ricche/montagne povere 5. L’oro italico (Nelle puntate precedenti …)
Si è visto come la scoperta ottocentesca della montagna, alle origini dell’alpinismo e della villeggiatura estiva, abbia fatto uscire la Valle d’Aosta da un secolare isolamento, ma, salvo le località termali, non l’abbia arricchita.
Si è visto come l’industrializzazione, nel primo Novecento, abbia arricchito alcune zone, Aosta e la Bassa Valle, ma sia stata percepita spesso dalla popolazione come una colonizzazione, un furto delle risorse della montagna a beneficio della città.
Si è visto come la ricchezza di alcune località di montagna sia arrivata dalla diffusione di massa dello sci alpino che ha modificato radicalmente, nel secondo dopoguerra, l’uso e l’immaginario della montagna.
Rimane ora da esaminare l’ultimo grande indiziato. Quello che tutti, fuori dalla Valle d’Aosta, indicano come primo e vero colpevole.
“Troppi soldi alla Valle d’Aosta!”. Sembra che il primo a dirlo sia stato, con la sua solita schiettezza, il Presidente, Sandro Pertini, il 26 novembre 1981, rispedendo alle Camere la legge faticosamente approvata sull’“Ordinamento finanziario della Valle d’Aosta”. La famosa legge sul riparto fiscale, a cui si lavorava da dieci anni, che assegnava alla Valle d’Aosta i nove/decimi delle imposte. Il panico durò un giorno soltanto (Pertini firmò il 27), ma le polemiche non sono ancora sopite.
Chi volesse ripassare i dati sulla quantità di denaro che giunse in Valle d’Aosta grazie a quella legge può trovarli riassunti con grande chiarezza nella Storia della Valle d’Aosta di Elio Riccarand. Non mi risulta che quei dati siano stati contestati, quindi, fino a prova contraria, restano la base su cui riflettere. Parliamo di entrate regionali che quadruplicano in due anni e passano dai 153 miliardi di lire nel 1981 ai 1.442 miliardi del 1992. Tanti di quei soldi che, a detta degli amministratori di allora, non si sapeva come spendere. Come trovare una miniera d’oro o un giacimento petrolifero. Con la differenza che, trattandosi di una scelta politica, le altre regioni a statuto ordinario, che trattenevano al massimo i tre decimi delle imposte, non l’hanno presa bene e non smettono di chiederci perché voi sì e noi no.
Fu così che, da quel momento, agli storici, ai linguisti, agli etnografi, a chiunque in Valle studiasse qualcosa, si incominciò a chiedere soltanto di portare argomenti che legittimassero il diritto dei valdostani a un trattamento fiscale diverso dagli altri. Indimenticabile uno scambio di battute fra Luca Zaia, che rivendicava per i veneti lo stesso trattamento dei valdostani, e Luciano Caveri, all’epoca mi pare Presidente della Giunta, che gli rispose qualcosa del tipo: “gli invierò un libro sulla storia della Valle d’Aosta” (e avrei sempre voluto chiedergli quale libro avrebbe scelto, perché misurarsi con la storia della Repubblica di Venezia è dura). Un episodio che racconto spesso ai miei allievi per tentare di spiegare che qualche volta la storia serve, anche se non sempre il fine è la conoscenza disinteressata.
Tornando però alla questione del colpevole, non sono così convinto che il riparto fiscale sia il responsabile principale della ricchezza della Valle. Intanto perché sappiamo che le fortune improvvise provocano talvolta più difficoltà che successi duraturi. I tesori di Cartagine aprirono a Roma l’età delle guerre civili; l’oro e l’argento del Nuovo Mondo regalarono alla Spagna qualche decennio di splendore, ma furono la rovina dell’Impero. Come la grossa vincita di una lotteria spesso distrugge la vita del fortunato vincitore.
Soprattutto perché il sorpasso è arrivato prima del riparto fiscale. La prima certificazione di una Valle d’Aosta come regione più ricca d’Italia è del 1957. Gli anni in cui si aprono i grandi cantiere della modernizzazione: i lavori dell’autostrada e dei trafori, le dighe di Valgrisenche e di Place Moulin. Quando esplode lo sci e il turismo di massa. Cose che avevano poco a che fare con lo Statuto Speciale. Gli unici vantaggi dell’autonomia (ancora in attesa di una mitica zona franca) erano a quei tempi l’esenzione fiscale su alcuni beni contingentati (i famosi buoni di benzina, un omaggio agli automobilisti più che un investimento strategico) e gli introiti del Casinò di Saint-Vincent, preziosa boccata d’ossigeno in tempi di magri bilanci.
Negli anni Ottanta gran parte delle nuove risorse derivanti dal riparto fiscale servirono ad ammortizzare gli effetti della crisi industriale. I nove/decimi ci hanno risparmiato la desolazione del Canavese dopo la fine dell’Olivetti, il cimitero di fabbriche abbandonate che costeggia la provinciale tra Lanzo e Ciriè o il silenzio dell’imponente manifattura di Cuorgné, monumentale testimonianza di un passato ormai remoto. Gli storici futuri ci diranno se, oltre a salvaguardare posti di lavoro moltiplicando il personale della Pubblica Amministrazione, foraggiando l’industria edile con una iniezione massiccia di committenza pubblica, distribuendo contributi a pioggia per salvare un agro-pastorale in estinzione, vi siano stati anche investimenti strategici in grado di garantire in futuro l’autosufficienza economica della Valle. Alcuni investimenti, possiamo già dirlo, sono riconosciuti a livello mondiale: il soccorso alpino, ad esempio, o l’Ecole d’Agriculture per l’eccellenza dei vini e dei formaggi. Nel complesso anche il forte di Bard. Altri sono stati disastri: il trenino di Cogne, l’aeroporto … Molti sono ancora in mezzo al guado: l’Università, o quella creatura sproporzionata e imbarazzante di Saint-Martin de Corléans.
Ricordo la stagione molto creativa dei primi anni Novanta quando alcuni studiosi, ancora pieni di entusiasmo, raccolti intorno a una Table Ronde sotto lo sguardo paterno di Ilario Lanivi o per un volume della Storia d’Italia Einaudi sotto quello severo di Stuart Woolf, provarono a cercare idee. Non tanto per discutere se questa ricchezza fosse un diritto o un privilegio, “se virtù o fortuna”, per dirla con Machiavelli, quanto per vedere se, visto che i soldi c’erano e nessuno intendeva rifiutarli, li si poteva usare in modo produttivo. Consapevoli che quest’oro italico non sarebbe stato eterno, ci chiedevamo come lo si poteva investire per diventare in futuro non solo autonomi ma anche autosufficienti.
Ci lasciarono fare. Non capivamo niente di dinamiche elettorali. Vinsero altri che sapevano che il potere non si conquista con gli studi, i libri e le tavole rotonde, ma assicurandosi i pacchetti di voti.
Ora che i soldi sono sempre meno, non è escluso che possano tornare a servire le idee.