Lo storico Andrea Desandré alza il tiro: «Annessionismo, cantiere da riaprire»
Sollecitato dalla redazione, mi inserisco volentieri nella telenovela annessionista sceneggiata magistralmente da Marco Cuaz, lungo la lunga messa in onda della quale compaio qua e là fra le comparse. Non che abbia chissà che da aggiungere o da svelare per prolungare la serie oltre l’ultima puntata, traguardo di un percorso a tappe molto seguito, efficacissimo nel restituire la complessità della vicenda e ricco di stimoli interpretativi. Ne approfitto quindi per fare il punto su quanto a mio avviso rimane da fare per giungere finalmente al “libro che non c’è ancora”.
A dire il vero, mettessimo assieme tutti i lavori richiamati da Cuaz, un bel librone ce l’avremmo già, ma l’inevitabile effetto cacofonico prodotto dall’assemblaggio di testi più o meno datati rischierebbe di reintorbidire le acque di un fenomeno ormai piuttosto chiaro nelle sue linee di fondo, tendenzialmente convergenti verso quello che lo storico del “Vecchio Mondo” chiama “grande bluff della Francia”, un imbroglio messo in atto tramite raffinate tecniche da guerra psicologica al fine di convertire la Valle in buona moneta di scambio da spendere sui tavoli delle trattative post-belliche. Parecchie sono le carte a supporto di questa tesi, ma basterebbe il telegramma - “Valdôtains entre nos mains…” - inviato a Parigi dal coordinatore delle missioni segrete operative sul versante italiano mentre i manifestanti del 18 maggio chiedono in coro il plebiscito, oppure il messaggio “très secret” relativo alla dimostrazione aostana comunicato al vertice governativo tre giorni dopo (“exploiter sur le plan gouvernemental et diplomatique”), a smascherare le mire strategiche dell’azione ad un tempo militare e politico-diplomatica messa in campo da De Gaulle e bloccata dagli anglo-americani. A questo livello, che potremmo definire macro, direi che la spiegazione dell’evento non debba temere eventuali supplementi d’inchiesta. Sì, i fascicoli in attesa di studiosi depositati presso gli archivi americani e inglesi sono certo gravidi di ulteriori particolari, non penso però tali da stravolgere le conclusioni generali desumibili da decenni di studi.
Diverso il discorso per altri livelli, sia di ricostruzione sia di analisi. La vera genesi del processo sfociato nelle turbolenze separatiste rimane ad esempio oscura. Che si tratti di macchinazione dei servizi d’oltralpe non v’è dubbio, i documenti riservati di fine ’44 inizio ’45 sono espliciti: “créer en Val d’Aoste un mouvement séparatiste en faveur de la France”. Meno chiaro chi, come e quando abbia preparato il terreno. Qualcuno ha parlato di incontri elvetici propedeutici prima del 25 luglio ’43, altri li collocano, sempre in Svizzera, dopo l’8 settembre, altri ancora assicurano che Chanoux, “chef du comité séparatiste”, era da tempo in contatto con Massigli, l’addetto agli Esteri del Comitato francese di liberazione nazionale; ma i prodromi della gallofilia notabilare vanno forse cercati nei carteggi clandestini degli anni Trenta tra Paul-Alphonse Farinet, futura eminenza del secessionismo d’élite, e il console francese di Torino. Lettere – intercettate dalle autorità fasciste e di cui Farinet si vanterà – ancora da scovare, così come molte altre carte di cui si conosce o si ipotizza l’esistenza. Dagli archivi privati superstiti c’è poco da aspettarsi, chiusi in cassette di sicurezza (come le memorie di Marie Nouchy, annessionista della prima e dell’ultim’ora), preventivamente epurati se depositati o semplicemente dichiarati inesistenti, tendono a considerare i fatidici 70 anni – limite legale per l’accesso ai dati considerati “sensibilissimi” – un lasso di tempo troppo breve per evitare grattacapi. Meglio puntare sulle raccolte pubbliche, italiane ed estere, pressoché integralmente consultabili. I fondi desecretati negli ultimi anni a Roma, Parigi e Londra sono numerosissimi, tanto da scoraggiare subito chiunque decida di avventurarsi da solo nei loro meandri. Ci vorrebbe, per batterli a tappeto, una bella squadra di ricercatori specializzati capace di raccogliere e sistematizzare sia quanto è rimasto da vagliare ai fini di una ricostruzione dettagliata dell’evento qui in oggetto sia la nuova documentazione disponibile concernente il dopo, l’onda lunga cioè dell’annessionismo infrantasi sui primi anni ’50, quando l’Ufficio per le zone di confine, un servizio speciale addetto alla tenuta politico-identitaria delle periferie, mette sotto controllo l’autonomia valdostana riempiendo faldoni e faldoni di rapporti, relazioni e informative confidenziali.
Tutta questa carta giacente e trepidante potrebbe lumeggiare diverse zone d’ombra (davvero il capo annessionista César Bionaz collabora contemporaneamente con tre diversi servizi segreti, francesi, italiani e inglesi? Il Caveri esule in Svizzera gode di coperture inconfessabili? Veramente, quando rientra, riceve – come sostiene un agente del Deuxième bureau – “più ordini da Parigi di quanti non ne riceva da Roma”? Degli Adam, fronte famigliare operativo su ogni fronte, sappiamo tutto? E quanto sappiamo della fine di Cesare Ollietti, il leader dell’annessione passato all’antiannessionismo morto in un incidente stradale a pochi mesi dalle prime elezioni regionali, ci basta?). Le carte in stand by potrebbero insomma sciogliere vari enigmi dalle catene dei sospetti e delle illazioni, cionondimeno gli scavi archivistici rappresentano soltanto il primo tratto dell’avvicinamento all’opera a cui “siamo molto vicini”. Il secondo, decisivo, va percorso sul piano interpretativo, tutto da riesplorare.
In un importante articolo del 2015, Alessandro Celi propone una rivisitazione critica dell’intera vicenda, solitamente targata antimonarchica, antifascista e persino filocomunista nonostante la connotazione clericale, monarchica e anticomunista dei suoi primi attori. Contraddizione apparente che troverebbe una soluzione nella base ideologica comune a tutti i principali protagonisti del movimento annessionista, al di là e al di qua delle Alpi, ossia il cattolicesimo militante innervato da apporti “non conformisti” e dai cosiddetti “federalismi alpini” alimentati dall’elvetismo letterario, un originale crogiolo culturale in cui si fondono mistica alpestre, regionalismo tradizionalista, ortodossia religiosa ed apertura europeista. Una pista reinterpretativa, questa indicata da Celi, parallela a quella tracciata alcune settimane or sono su queste stesse colonne da Corrado Binel, il quale colloca la faglia separatista al termine di una lunga durata del conservatorismo antistatalista valdostano. Credo convenga seguirle entrambe per avvicinarci, lentamente e se necessario indietreggiando, al libro che ci sarà.