La Valle d’Aosta piange François Cerise grande memoria di un mondo perduto

La Valle d’Aosta piange François Cerise grande memoria di un mondo perduto
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François Cerise è stato un maestro per molti, soprattutto per chi aveva voglia di ascoltare e di capire, perché “Cesco” non voleva mai imporre le sue idee, voleva trasmettere il suo sapere e per farlo non rinunciava mai a quello che è stato il segno che ha caratterizzato la sua vita: la coerenza.

Una coerenza dalla quale non ha mai deviato, anche quando scelte opportuniste lo avevano tentato. Mai. Coerente fino in fondo con i suoi principi, quei valori che aveva ereditato e cresciuto dentro di se e che - uomo saggio e di cultura quale era - sapeva di possedere perché fossero trasmessi ad altri.

Da quando era nato, il 19 giugno del 1932, a Gignod, figlio unico di Giuseppe e di Emma Cerise, cugina del papà, entrambi originari di Allein, scesi nel villaggio di Condemine, un tempo attraversato dallo stradone del Gran San Bernardo, François - “Cesco” per gli amici e per la moglie Palmira Barmasse - aveva dimostrato di essere un bambino e un ragazzo curioso, immagazzinando nella testa parole e storie antiche, ascoltando incantato chi le raccontava. Allo stesso modo osservava la natura e gli uomini, pastorello di mucche e di manzi, conduttore della mitica mula Lisa, guardava le bestie e si accorgeva che la sua Valle d’Aosta stava cambiando velocemente e che molto rischiava di andare perso. Era la fine degli anni Quaranta e pur ragazzo visse la grande stagione dell’autonomismo, le manifestazioni pubbliche, l’adesione convinta ai principi dell’Union Valdôtaine, giovane tra gli adulti. “Cesco” ascoltava sempre, guardava curioso, vedeva il suo mondo contadino modificarsi e si accorse che, con il tempo, stava diventando un giovane uomo di memoria. Decisiva fu per lui l’esperienza a fianco di Amédée Berthod, che lo scelse per essere accompagnato nelle case della famiglie della Coumba Freide e della Valpelline, quando l’Amministrazione regionale cominciò ad acquistare oggetti della cultura popolare prima che venissero tutti rimpiazzati dalle famose cucine in formica. Amédée Berthod gli insegnò molto e “Cesco” imparò così bene da diventare lui stesso un cercatore, acquistando - spesso di nascosto dalla moglie Palmira sposata nel 1963, perché i soldi erano pochi - quanto di più straordinario la cultura popolare valdostana avesse prodotto, dai piccoli e raffinati oggetti, alle suppellettili di uso quotidiano, ai mobili più belli - cassapanche, armadi, credenze, piattaie, poi ancora campane, caminiere -, fino alla sua passione tra le passioni, i “peilon”, i mortai pestasale, soprattutto quelli con le teste scolpite, tanto da arrivare a possederne quasi trecento, tutti allineati sui gradini delle scale di casa, ad accompagnarlo in ogni suo spostamento tra le mura domestiche.

La casa appunto, quel fabbricato costruito nel 1952 nel verde di Aosta, in un appezzamento acquistato nel 1948 dal papà Giuseppe. Una casa con stalla e fienile costruita da loro due, fino al tetto, quando la trave maestra, lunga venti metri, la trasportarono da Gignod con il mulo in quella che oggi è via Jean De La Pierre. Il padre è contadino e allevatore, prende in locazione il grande prato del Refuge Père Laurent, diventando nel contempo guardiano delle acque per il consorzio irriguo Mère des rives, che ha la sua opera di presa dal Buthier poco distante. Così giorno e notte sorveglia la distribuzione dell’acqua fino allo scarico di Montfleuri, in un’epoca in cui Aosta era ancora una città con una connotazione fortemente rurale. “Cesco” ha vent’anni e ne ha già viste parecchie, l’amore per la moto gli ha causato parecchie fratture, un calcio di un mulo gli ha modificato il volto, una mucca imbizzarrita la cui cavezza è rimasta legata a un piede lo ha trascinato a lungo a terra. Tanto che nella sua mente di uomo di fede François ringrazia il Signore per avergli fatto superare queste ed altre prove.

Nel 1959 trova lavoro vicino a casa, alla Metallurgica Valdostana, di fronte al Père Laurent, ma solo in inverno, perché la sua estate è fatta del pascolo e dei fieni a Condemine e dell’impegnativa fienagione del grande prato di fronte a casa, dove le sue mucche, in autunno, sono il richiamo di un mondo sempre più lontano per gli aostani, un mondo che molti bambini vedono come una sorta di zoo, mentre intorno alla cascina dei Cerise crescono i condomini, uno dopo l’altro, e vengono create via Roma e viale Federico Chabod, una specie di assedio di cemento, al quale resiste quel solo rettangolo verde.

Con una maggiore sicurezza economica, “Cesco” può sposare Palmira, originaria di Saint-Christophe, donna forte e risoluta, e creare una sua famiglia, con la nascita nel 1965 di Alessandra. Per la culla in legno si rivolge a Gino Thomasset di Saint-Nicolas, perché François vuole che la tradizione continui a vivere anche nella casa di via Jean de la Pierre, d’altronde lui continuerà a farsi cucire gli abiti in drap di Valgrisenche dalla sartoria Berthet di via Porta Pretoria, indosserà sempre i sabots di Ayas, mangerà i prodotti del suo bellissimo orto, berrà il vino delle vigne degli amici ed i liquori fatti con le foglie, i frutti, addirittura i noccioli, come gli anziani gli avevano insegnato.

Proprio nel 1965, nata Alessandra, ora bibliotecaria a Gignod, inizia a scolpire. «Ho cominciato, per lasciare una traccia ai posteri. Non ho imparato da nessuno, anzi Amédée Berthod mi diceva di fare di testa mia». D’altronde la testa di “Cesco” è piena di idee, di ricordi, di storie. La sua prima Foire de Saint Ours è quella del gennaio 1966, propone le sue scatole di legno che rappresentano i lavori della campagna e vince il primo premio con una Pietà che viene acquistata da don Alexandre Bougeat, parroco di Morgex.

Proprio in quei mesi la Metallurgica Valdostana chiude e il “laminatore” François Cerise si trova senza lavoro. La Cogne assume, ma non chi è iscritto all’Union Valdôtaine, le tessere giuste sono quelle della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista. Per “Cesco” la questione non si pone nemmeno, lui mai rinuncerebbe alle sue convinzioni e così la vita gli offre un’altra opportunità, come insegnante alla scuola di intaglio di Valpelline, dove applica sin da subito il suo credo, cioè l’assoluta libertà per gli allievi di esprimersi come vogliono. «Bisogna che il maestro scultore insegni tecniche e non stili e l'estro dell'apprendista deve essere lasciato libero. L'arte popolare deve rispecchiare il vero volto del popolo che l'ha generata, anche per contribuire alla salvaguardia dell'etnia locale», così diceva nel 1971 e mai si separò da questa convinzione, coerente sempre, tanto che - per esempio - sia alla moglie Palmira che alla figlia Alessandra è tassativamente vietato l’accesso alla soffitta che ha trasformato in laboratorio, perché nessuno, e ripete nessuno, deve vedere le sue opere mentre le sta realizzando, così da non influenzare le sue idee. Lo stesso vale per i tanti amici, per gli estimatori e per i collezionisti, che come i famigliari possono accedere al suo spazio veramente privato solamente il giorno prima della Foire, il 29 gennaio. E così sarà fino al 2016 quando dopo cinquant’anni e cinquantuno edizioni della Millenaria, “Cesco” decide di lasciare il suo banco all’angolo tra via Sant’Anselmo e via Hotel de Monnaie: in dieci lustri ha raccolto tutti i premi possibili, tuttavia per lui la Foire resta sempre un’occasione unica, per mostrare a tutti la “valdostanità” che porta nel cuore e nel modo di essere, con un orgoglio raro.

Nessuna delle sue sculture è realizzata per essere venduta, anzi parecchie non sono neppure in vendita, perché hanno per lui dei significati e le conserva, sempre in alto, nella soffitta, una accanto all’altra, testimoni della sua arte spontanea ed ironica. Infatti “Cesco” quando scolpisce si diverte. A fianco ai Santi e alle Madonne, ai soggetti religiosi che non mancano mai sul suo banco, ecco le scene di vita quotidiana, pastorale e contadina, scene che solo chi le ha vissute è capace di raccontare. Quindi nella stalla il mungitore prende il ritmo, mentre la moglie accarezza la groppa della mucca per farla stare tranquilla e la bestia vicina si alza, scivolando leggermente sul legno viscido dei plantzi perché sa che dopo toccherà a lei essere munta. E quando François Cerise spiega le sue sculture ride, ride di gusto, ricordando nella memoria quelle scene, come i falciatori in mezzo all’erba e lui che posiziona un sasso nascosto, così «quan arrevon to la fa i berio, beinnnngg» e ride pensando al suono della falce che si scontra con il sasso. Oppure quel soggetto che gli piace molto del casaro che porta la caldaia nel trasferimento in alpeggio calata sul corpo e «vei nienca iou vat» o ancora quando ti fa notare, vicino alle figure in piedi e sedute che «ni beuto eun tzeun, t’a vu lo tzat?».

Anche in quell’ultima Foire del 2016 le sue - come sempre da mezzo secolo - erano sculture vive, piene di storie, non semplici pezzi di legno, non solamente opere d’arte. Erano il racconto di una vita, di un mondo che lui aveva conosciuto, del suo mondo, che sapeva in disparizione e che voleva in qualche modo, nel modo che conosceva, trasmettere. Così fu anche per la sua collezione, circa cinquemila oggetti, donata alla Regione, per farne il nocciolo di un futuro museo etnografico, il suo sogno, condiviso con tanti altri appassionati, che è rimasto tale, perché proprio il museo che è base ovunque della valorizzazione della cultura popolare, nella nostra Valle d’Aosta è purtroppo sempre rimasto sulla carta e nelle parole vuote dei politici. Una delusione che François Cerise non meritava.

Per lui comunque continuavano a vivere le sue sculture, le sue opere d’arte, esposte in numerose mostre, finite nelle mani dei Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II e in quelli di tantissima gente, amante dello stile unico di “Cesco”, di quelle forme che uscivano dalla sua mente, memorie di vita quotidiana. Poi la sua firma, nascosta, “François Cerise Aoste”, con la data, un suo vezzo nella modestia, insieme al punzone forgiato che nel tempo andato era utilizzato dalle famiglie per marchiare a fuoco gli oggetti di proprietà. Il suo “FJC”, timbrava mobili e suppellettili, sigillo conosciuto dagli appassionati, come la sua indubbia conoscenza dell’arte popolare valdostana, una conoscenza che comunque arricchiva costantemente.

Nella notte tra sabato e domenica scorsi, questo virus maledetto si è preso “Cesco” Cerise, un Grande Valdostano. Una perdita che ha toccato al cuore tanti, molti di più di quelli che potremmo immaginare. Pensando a lui, viene in mente una frase che diceva spesso ridendo, quando ricordava gli incidenti e le malattie che lo avevano messo in pericolo di vita, «Mi ha evitato l’epigrafe» per sottolineare che l’aveva scampata. Purtroppo caro François, questa volta neppure l’epigrafe hai avuto, mai stai certo che resterai per sempre nella nostra memoria. «Merci Cesco e tanque».

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