L’Europa tra due guerre, il discorso di Josep Borrell davanti al Monte Bianco
Davanti alle due guerre, in Ucraina e in Medio Oriente, il progetto europeo rischia di vacillare. Per risollevarsi ed essere convincente, dall’Est del continente al Sud del mondo, l’Europa ha bisogno di una narrazione che combini principi e pragmatismo. Nell’ultima giornata del Grand Continent Summit, l’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell ha scelto la cornice di Skyway per un discorso storico, esponendo i lineamenti di una dottrina per l’«Europa tra due guerre», un’analisi di fondo della posizione europea in un mondo in cui il conflitto territoriale è tornato ma l’Unione non può permettersi di perdere i suoi valori. Ne pubblichiamo un estratto: «Penso che i due conflitti siano interconnessi, perché entrambi mettono in evidenza la permanenza della lotta territoriale. Ci è stato detto che la geografia non conta più. La geografia era scomparsa dai conflitti. Invece no, stiamo ancora parlando di questioni territoriali. La geografia è ancora lì e chi la governa diventa sempre più importante.
Nel caso ucraino, si tratta ovviamente di un conflitto che oppone uno Stato sovrano, l'Ucraina, a un potere imperiale o meglio imperialista. E quando diciamo imperialista o imperiale, diciamo anche coloniale, alla ricerca della propria identità.
Il conflitto tra Israele e Palestina – anche se alcuni dicono che è solo tra Israele e Hamas, ma è falso, è un conflitto tra Israele e Palestina – è di natura diversa, ma si riferisce anch’esso a una questione territoriale. Si tratta di due popoli che lottano per la stessa terra. O sono in grado di condividerla, oppure qualcuno dovrà andare via, o morire, o diventare cittadino di seconda classe. È con queste parole che un ministro israeliano ha definito il futuro dei palestinesi. Non è un futuro di cui rallegrarsi. Dobbiamo trovarne un altro.
Oslo è stato un passaggio importante, ma risale a 30 anni fa e di fatto non ha mai avuto luogo. Gli estremisti di entrambe le parti, Hamas da una parte e il fondamentalismo della destra israeliana dall'altra, hanno reso impossibile la soluzione dei due Stati. Gli accordi di Oslo non hanno neanche mai fermato la colonizzazione: il numero di coloni israeliani nei territori che avrebbero dovuto essere la culla dello Stato palestinese si è moltiplicato per quattro.
Non esiste una soluzione militare al problema. Hamas è qualcosa di più di un'organizzazione terroristica per noi, o di una forza di resistenza palestinese per gli altri: rappresenta un'idea. E non si può uccidere un'idea con le bombe. L'unico modo per uccidere un'idea è fornirne una migliore, che dia speranza, che dia un futuro, che dia la fiducia in un futuro in cui la pace è possibile.
Quindi, prima di tutto, qual è la nostra capacità di agire collettivamente? Qual è la nostra capacità comune di influenzare gli attori?
In Ucraina, l'ho già spiegato, non riusciremo a convincere Putin. Ma possiamo sostenere l'Ucraina. E come ho detto, il nostro sforzo per farla diventare membro dell'Unione Europea è il più grande impegno di sicurezza che possiamo prendere per l’Ucraina. So quanto sia difficile, e ci vorrà del tempo, ma non possiamo dire agli ucraini che abbiamo esitato su questo punto. E credo che sia la scelta strategica più importante che abbiamo già fatto e che ora dobbiamo concretizzare.
Nel conflitto in Medio Oriente, abbiamo anche qualche leva. Siamo noi i primi finanziatori dell'Autorità Palestinese. E per Israele siamo i primi partner commerciali. Disponiamo della capacità di influenzare, ma non vogliamo usarla. Manca la volontà politica di usare la leva che abbiamo con Israele per modificare la sua condotta.
Se non risolviamo la questione di Gaza, Gaza sarà una seconda Somalia, un mondo senza legge dove alla violenza si risponde con la violenza. E noi ne pagheremo il prezzo in termini di aumento delle minacce terroristiche, di flussi migratori e di movimenti forzati di popolazione. La società europea ne sia ben consapevole: la situazione si ripercuoterà su di noi. Anche in nome del nostro egoismo, se vogliamo, dobbiamo fare tutto il possibile per evitare che la situazione peggiori.
E per trovare una soluzione, dobbiamo avere una narrazione. Dobbiamo avere un discorso. Perché è nel discorso che i due conflitti si uniscono. Costruire una narrazione è fondamentale. Qual è dunque la nostra capacità di costruire una narrazione che possa essere credibile e presentare una soluzione politica legittimata?
Per l’Ucraina, sosteniamo il rispetto della sovranità del Paese, dell'integrità territoriale, sulle fondamente della Carta delle Nazioni Unite. Abbiamo sottolineato all'Assemblea generale questi principi per giustificare il nostro sostegno all'Ucraina, e la comunità internazionale ha reagito: 145 Paesi hanno votato SÌ. L’aggressione viola la Carta delle Nazioni Unite, ed è su questo che abbiamo basato la nostra posizione: abbiamo difeso i nostri principi ed era nel nostro interesse. Questo ci ha permesso di colmare il divario tra noi e gli altri Paesi.
Percepisco però che molti nel mondo non condividono i nostri sentimenti di indignazione verso l'aggressione russa. Certamente la ritengono molto grave e un’indubbia violazione della Carta delle Nazioni Unite, dicono anche che voteranno di conseguenza, ma che il loro sforzo si fermerà lì. Quello che ci chiedono è soprattutto di porre fine a questa guerra il prima possibile, dicendo che non riescono a sopportarne le conseguenze. Inoltre, ci dicono che abbiamo una politica basata sui principi a geometrie variabili, in ragione del momento e degli attori coinvolti. Quindi la nostra politica basati sui principi, in alcuni casi, non viene vista come tale.
Nel conflitto tra Israele e Palestina, la nostra mancanza di unità ci ha reso meno credibili nel giustificare il nostro attaccamento al rispetto della legalità internazionale. E poi, ditemi, perché quando 144 Stati sostengono l'Ucraina all'Assemblea Generale, sono dalla parte giusta della storia, ed è la comunità internazionale a esigere qualcosa, e quando ci sono 153 Stati che chiedono un cessate il fuoco umanitario a Gaza, il valore della norma internazionale non è condiviso e riconosciuto da noi? Perché in un caso quella maggioranza è dalla parte giusta della storia e dall'altro non siamo convinti che questa sia la parte giusta della storia? Non possiamo chiedere alla comunità internazionale di votare una volta sì e un'altra no per le Nazioni Unite. È molto difficile affrontare questa contraddizione.
Se non vogliamo perdere le nostre posizioni in una parte del mondo, che l'Ucraina continui a essere sostenuta dalla comunità internazionale e che ciò che sta accadendo a Gaza non indebolisca il sostegno che l'Ucraina riceve da molti Paesi del mondo, allora questa combinazione di principi di interesse deve essere portata avanti in un modo molto più compatibile con la percezione che il mondo ha di ciò che sta accadendo in un luogo e nell'altro.»