Il sorriso più forte delle difficoltà Si è spento Giuseppe Hugonin
Giuseppe Hugonin - all’anagrafe Giuseppe Luigi ma per tutti “Gioget” - era un uomo buono e sincero. Due qualità che ne sintetizzano la vita lunga e operosa e alle quali si è conformato naturalmente, perché appartenevano al suo Dna. E’ mancato domenica 5 novembre e i suoi funerali sono stati celebrati mercoledì nella chiesa parrocchiale di Verrayes. Nato il 26 dicembre del 1930, non aveva conosciuto un’infanzia spensierata: i tempi erano duri e a 10 anni si era confrontato con la guerra. Raccontava di quando scendeva da Verrayes, il paese della sua famiglia a cui è rimasto sempre legato, per ricevere la scarsa dose di pane assicurata dalla tessera annonaria, e della fatica da domare per non mangiarlo tutto risalendo, dal momento che doveva bastare per tutti i familiari.
Dopo il conflitto, il lavoro in Montefibre, la fabbrica dismessa da tempo, a Châtillon, dove si recava in bicicletta, con ogni condizione atmosferica: un giornale sotto il giaccone e le dita intirizzite, quando la temperatura andava in doppia cifra sotto zero. Finalmente, la moto Gilera, gli sembrava di toccare il cielo con un dito, un motore lo esimeva da grandi sforzi ancor prima di iniziare il turno. E poi, la segheria e il mulino, punti di lavorazione di legna e grano anche per Saint-Denis e Torgnon. Andava orgoglioso del suo passato da alpino - non mancava mai alle ricorrenze - e delle sue origini contadine, ogni anno si consumava il rito del taglio del fieno, attività rallegrata da tavolate con parenti e amici che lo coadiuvavano. Andava ancora più orgoglioso della famiglia: l’amata moglie Giuseppina Monterin gli aveva dato 2 figli, che adorava, Rita e Stefano. Giuseppe conobbe dolori immensi e non facilmente rimarginabili, perdendo prima la moglie e poi la figlia, per mali incurabili. Ma sapeva che la vita non era soltanto gioia, l’aveva sperimentato da ragazzo. Quindi, accettava gli eventi: non nel senso passivo, da nichilista, ma nella consapevolezza che occorresse elaborare e ripartire, anche per rispetto di chi l’aveva così drammaticamente e prematuramente lasciato. Erano, ancora, il buon senso, la risolutezza e la resilienza, quella vera, tutte virtù proprie della civiltà contadina, improntata al sano pragmatismo: quante volte Giuseppe raccontava come bastasse un evento atmosferico avverso per cancellare mesi di sforzi nei campi. Questo lascia, Giuseppe, ed è un’eredità da non disperdere, in questi tempi grami che talvolta elidono le speranze ma in cui sempre si può e si deve ripartire, come ha fatto lui.