Il libro che non c’è - 4. Sports valdôtains

Il libro che non c’è -  4. Sports valdôtains
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Da bambino giocavo a fare Eddy Ottoz. Cioè, ci provavo, perché il personaggio era molto conteso e se non eri veloce a prendere il nome ti toccava fare Mazza o Cornacchia. Rabbiosamente mi intestardivo nei centodieci ostacoli finché un insegnante di ginnastica mi fece capire che il mio fisico era inadatto e mi indirizzò verso il tennis, regalandomi qualche piccola soddisfazione in più.

Lo ricordo per dire come tutto il mondo della nostra infanzia fosse invaso dello sport. Praticato, guardato, sognato, discusso. La scuola ci portava a sciare. I preti ci portavano in montagna. Negli oratori ci si azzuffava per scendere in campo. Mio papà mi portava allo stadio, il Puchoz, e io gli domandavo perché l’Aosta non avesse una squadra da serie A (e mi dava una risposta alla Rocco Schiavone: “nessun bravo giocatore vuole venire a vivere ad Aosta”). Non ci perdevamo un passaggio del Giro d’Italia anche se significava tre ore di attesa per il fulmineo transito di una massa di magliette colorate ricurve. Tutto il nostro mondo era impregnato di immaginario sportivo, dalle biglie con Bitossi e Zilioli, lanciate su ogni genere di pista, alle figurine dei calciatori scambiate sotto i banchi di scuola.

Qualche tempo fa, prima del Covid, stavo facendo alcune ricerche nell’archivio torinese dei salesiani e il vecchio bibliotecario mi portò a fare un giro nell’immenso cortile di Valdocco dove, nella sua giovinezza, mi raccontava che si affollavano centinaia di bambini urlanti dietro a una palla. Quel pomeriggio primaverile erano in quattro che nemmeno alzarono la testa dal cellulare.

Ne avevo parlato a lungo con Claudio Bredy, al tempo della sua tesi di laurea sull’Opera Nazionale Dopolavoro, dovendo riconoscere come il fascismo avesse fatto molto per trasformare i valdostani in sportivi. E come la Chiesa avesse fatto molto nell’usare lo sport come strumento di disciplinamento sociale (non altrettanto la sinistra snob che spesso guardava allo sport come un oppio dei popoli).

Perché in Valle d’Aosta non si è mai fatta una storia dello sport? Eppure ci sono settori, tutti gli sport invernali in primo luogo, in cui la Valle vanta un’eccellenza assoluta. Ma ci sono anche grandi figure in altri ambiti, a partire dal primo vincitore del Tour de France. E poi non importano solo i campioni: lo sport popolare, i ragazzi, le palestre, gli oratori, le associazioni, i sogni… Quante belle storie ci sarebbero da raccontare!

Qualcuno lo ha già fatto su singole discipline. Lorenzo Paris ci ha raccontato tante cose sulla storia dello sci. Franco Cuaz ci ha lasciato splendide pagine sul ciclismo dei tempi eroici. Pietro Giglio, Antonella Dallou, Stefania Celesia e molti altri ci hanno aperto squarci importanti sulla storia dell’alpinismo in Valle d’Aosta. Pierino Daudry ha spiegato, a noi cittadini, il mondo degli sport popolari. Claudio Bredy ci ha mostrato il ruolo dell’OND nel diffondere in Valle alcune pratiche sportive. Da parte mia penso di aver dato qualche piccolo contributo nel mostrare come la Chiesa abbia portato i giovani in montagna.

Ma il libro che mi piacerebbe leggere, e credo piacerebbe a molti, è proprio una storia complessiva dello sport in Valle d’Aosta, dell’associazionismo sportivo, delle strutture, delle politiche, dei giornali sportivi (come dimenticare il delizioso “Sports Valdôtains”) e poi dei tanti, professionisti e dilettanti, che hanno dedicato allo sport un pezzo della loro vita. E dell’impatto che queste storie hanno avuto sull’immaginario collettivo, sui sogni di noi comuni mortali che avremmo appeso le nostre scarpe a qualche tipo di chiodo senza aver mai vinto niente. Perché comunque voler fare Eddy Ottoz è diverso da voler fare X Factor o sfidarsi su TikTok. Sarà forse patetica nostalgia del vecchio mondo, ma credo ancora che lo sport sia una grande scuola. Sono certo che i racconti di mio padre di Charly Gaul sui tornanti del Bondone o di Bartali che arriva ad Aosta imprecando, coperto di sangue, mi sono serviti.

Non è un libro impossibile. Non è economicissimo. Bisogna mettere insieme competenze diverse: un esperto di sci non può esserlo anche di rugby o di boxe. Si dovranno fare delle scelte dolorose, non ci potranno entrare tutti, qualcuno si lamenterà di essere rimasto fuori. Qualche disciplina dovrà essere sacrificata (anche le bocce? I rallies automobilistici? Le arti marziali?). Saranno limiti inevitabili. Altrimenti si fa un’enciclopedia o un elenco telefonico.

Il materiale c’è, fin troppo abbondante. Di facile lettura e di facile accesso. Si trova quasi tutto al fondo regionale della biblioteca di Aosta. Alla peggio chiedete a Omar Borettaz, lui sa tutto. Poi molti protagonisti sono ancora vivi e immagino che sarebbero ben contenti di poter dare una mano. Con testimonianze, foto, oggetti. Il libro potrebbe essere affiancato da una mostra (quanto vorrei vedere da vicino un oro olimpico o uno sci dei tempi delle Olimpiadi di Garmisch!).

Un editore non ci perderebbe di sicuro. Quanti lettori cercherebbero i loro ricordi! Ma soprattutto una storia come questa potrebbe anche suggerire qualcosa sulle politiche attuali dello sport. Può ancora essere strumento di educazione? di prevenzione del disagio, di tutela della salute, di socializzazione, di integrazione sociale? Quanti ragazzi hanno salvato i campetti di calcio degli oratori o delle periferie urbane! I salesiani dicevano che lo sport era il miglior antidoto all’alcool (e alle tentazioni della carne). Ho visto la Torino comunista di Diego Novelli e di Fiorenzo Alfieri finanziare gli oratori per combattere la droga. Oggi contro i social network e i videogiochi sembra che la politica si sia arresa. Noi potremmo solo raccontare qualche bella storia del vecchio mondo, poi ognuno farà la sua parte.

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