Il libro che non c’è - 2. La Valle d’Aosta e la Grande Guerra
Sembrava una poderosa macchina da guerra. La più qualificata équipe di studiosi valdostani dal tempo del volume Einaudi. Avevano aderito (con diverse gradi di entusiasmo), i massimi storici dell’età contemporanea, da Momigliano Levi a Riccarand, da Celi a Désandré, da Omezzoli a Di Tommaso, con l’appassionato contributo dei maggiori esperti di settore: Gianna Bonis, Laura Decanale, Stefano Viaggio, Chantal Vuillermoz, Gianfranco Ialongo, Angelo Quarello, Maria Cristina Fazari. Nomi che erano una garanzia assoluta, una formazione irresistibile. Avevano assicurato il loro patrocinio le massime istituzioni culturali della Valle: Università, Biblioteche, Fondazioni, Rai. Un prestigioso editore locale si era offerto di pubblicare il libro senza neppure attendere i contributi della Regione, sicuro delle vendite. Il volume doveva uscire per il 4 novembre 2018, il centenario di Vittorio Veneto.
La discesa in campo era stata quasi trionfale. 2014-5, centenario di Sarajevo e dell’ingresso in guerra: due presentazioni pubbliche alla Biblioteca regionale, una tavola rotonda all’Università, una celebrazione ufficiale alla Regione con autorità civili e militari, l’inserimento del gruppo valdostano in una progetto internazionale, un ampio speciale sulle pagine regionali della Stampa con anticipazione dei temi più rilevanti della ricerca in corso.
Molte belle discussioni interne al gruppo e tanti interrogativi che si accavallavano. Ma perché molti valdostani volevano andare in guerra? Erano davvero tanti o solo più rumorosi dei pacifisti? Si poteva capire i soliti ragazzini desiderosi di avventura, gli industriali che pensavano ai buoni affari, i disoccupati che cercavano lavoro, perfino quegli intellettuali democratici, un po’ ingenui, che volevano finire il lavoro iniziato da Mazzini e da Garibaldi. Ma perché dei seri e attempati notabili che gestivano la vita pubblica locale, si chiamavano Chabloz, Martinet, Marguerettaz, Lucat, Rosset, Norat, parlavano francese e si definivano “valdôtain avant tout”, volevano versare il loro sangue “pour la rédemption de nos frères de Trento et Trieste”? E invitavano i concittadini coprirsi di gloria “pour l’indépendance de la Patrie”? (quasi che l’Italia fosse minacciata e non aggressore!). Come se la immaginavano quella guerra? Cosa ti può spingere a partire volontario?
Le prime ricerche portavano risultati sorprendenti. Avevamo sempre creduto, ce lo racconta tutta la mitologia degli alpini, che i montanari fossero soldati obbedienti, rassegnati, forse poco propensi agli slanci dannunziani, ma sicuramente fedeli al Re, alla Compagnia, al Capitano e alla regola che “quello che deve fare si fa”. Poi scopriamo che la notte tra il 25 e il 26 novembre del 1915 Aosta viene messa a fuoco e fiamme da una rivolta degli alpini che non vogliono partire per il fronte. Tutto fu messo a tacere, i giornali non ne parlarono, ma non furono solo alcuni alpini ubriachi, come si è detto più tardi. I documenti conservati all’archivio di Stato di Roma, su cui Stefano Viaggio aveva incominciato a indagare, presentano un quadro ben diverso.
Pensavamo anche che i “caduti per la patria” fossero tutti ricordati nei monumenti e nelle lapidi dei cimiteri dei paesi, quei lunghissimi elenchi di giovani che ci danno il senso della catastrofe che ci ha investito, ma da qualche controllo negli archivi comunali viene fuori che non ci sono tutti. Alcuni morti non si devono ricordare. Quali croci mancano? I disertori? I fucilati? I morti in prigionia (darsi prigioniero era un’infamia)? Abbiamo i Livre d’or sui “caduti nel campo d’onore”, ma non sappiamo niente di renitenti e disertori. La storia li ha cancellati, bollati come “codardi”. Eppure esprimono un dissenso, una ribellione, a volte eroica, in nome del diritto alla vita contro la follia di una guerra di cui nessuno sa bene le ragioni. Ci eravamo messi a cercarli.
Pensavamo anche che, dopo anni di guerra, qualcuno, a casa, avesse incominciato a non poterne più. Magari esprimere qualche dissenso. E invece, soprattutto dopo Caporetto, sembra che il «fuoco sacro» della Grande Patrie avesse acceso ogni cuore valdostano. Persino quella tenera poetessa, Eugénie Martinet, interprete del più antico animo pastorale, invitava i suoi studenti liceali a riflettere sui «nostri sacri confini» dove «vincere bisogna, vivere non è necessario».
La Grande Guerra ha sconvolto la Valle d’Aosta. Un piccolo mondo agro-pastorale divenne una tumultuosa Valle industriale. Qualcuno ci guadagna, fa affari, si imbosca, si arricchisce (chi?). Per molti fu il disastro. Svuota i paesi, porta via i ragazzi; più di ottomila, un decimo della popolazione. E un giovane su cinque non fa ritorno, due su cinque ritornano con mutilazioni e ferite che non guariranno mai. Non c’è famiglia che non pianga qualcuno. Eppure nessuno ha gridato “ Gorizia tu sei maledetta!”, ma hanno scritto ovunque “Morts pour la Patrie” (quale patria? non si definivano “valdôtain avant tout”?). E poi, finita la guerra, il fascismo ha intercettato il lutto trasformandolo in una “religione della patria” e spingendo anche i valdostani a votare per Mussolini.
Soprattutto ci chiedevamo, un po’ stupiti, perché nessuno storico valdostano (eccetto qualche appassionato di storia degli alpini) avesse ancora studiato la Grande Guerra. Perché la prima guerra mondiale è stata rimossa perfino dalla memoria familiare totalmente assorbita dalla seconda. Perché, al di fuori dell’Associazione Nazionale Alpini, nessuno conosce le storie del Monte Vodice, del Pasubio, del Solarolo o conosce Ernesto Testafochi (in Francia tutti conoscono la Marne o Verdun). Ci si domandava perché, in una regione dove si pubblicano tanti libri di storia, non ce ne fosse uno sulla Grande Guerra.
Presto lo avremmo capito …
(Continua)