Il libro che non c’è. 1 Personaggi in cerca d’autore
Recensire libri. Per molti anni è stata quasi la mia attività principale. Durante una specializzazione che non finiva mai ce lo davano come compito (e anche un po’ come sfruttamento di manodopera per le riviste storiche). Sicuramente un buon esercizio per imparare il mestiere, anche per apprendere le astuzie del parlar di libri brutti senza farci troppi nemici (cosa che non ho imparato molto bene). Di quelle recensioni il difetto maggiore che i nostri maestri ci rimproveravano era il gusto di evidenziare quello che non c’era. Un modo sostanzialmente per dire ai più anziani: “avete lasciato tanti buchi e adesso arriviamo noi”. Ricorderò sempre uno dei miei maestri, Franco Venturi, dall’alto della sua saggezza, che ci raccomandava: “nei libri guardate quello che c’è, non quello che manca”. E aggiungeva, ammiccante: “La storia è così vasta, se la guardi da vicino, che quello che non sappiamo sarà sempre più di quello che sappiamo”. Un modo per dirci: “tranquilli ragazzi, ci sarà spazio anche per voi!”.
Con la stanchezza per le recensioni mi è cresciuta parallelamente la curiosità per i libri che non ci sono. Non quelli coi buchi, quelli ce li hanno tutti. Proprio per le storie che sono lì, lo sappiamo che ci sono, ma non sono ancora state raccontate. Come un navigante che ha visto tante isole ed è però ossessionato da quella che non ha trovato, e che però dovrebbe essere lì. Cioè le storie che abbiamo intraviste, talvolta sono solo chiuse in un cassetto, ma non sono state raccontate. Come nei Sei personaggi in cerca d’autore, dove il dramma dei sei personaggi non può essere raccontato perché la vita è un teatro e non tutto può essere messo in scena.
E, si sa, al mondo esiste solo ciò che è raccontato. Cosa ne sarebbe di Achille senza Omero? Di Fausto Coppi senza le radiocronache di Mario Ferretti? Questa è una responsabilità per chi scrive storie: decidere chi vive e chi muore, chi è buono e chi è cattivo; aprire le porte del paradiso e dell’inferno della memoria collettiva. Donare la fama o la damnatio memoriae, quella terribile punizione che i Romani assegnavano ai peggiori: la cancellazione dalla storia.
Avviene ancora. Indimenticabile è l’emozione di quando, ero agli inizi, mi ritrovai tra le mani le storie di centinaia di maestri e maestre valdostani tra Otto e Novecento. Storie di eroismi, di sofferenze, di miseria, talvolta di alcoolismo, di violenze. Potevo farle rivivere o lasciarle dormire per sempre, potevo decidere di raccontarne una parte, magari solo il bello, e costruire un’immagine idilliaca delle maestre e delle scuole di villaggio (l’avessi fatto ci avrei guadagnato di più). Con il materiale che avevo potevo anche raccontare la discesa in un girone infernale (e di memoria mi sarei dannata la mia). Qualcosa ho deciso di raccontare (anche se qualcuno mi aveva suggerito di lasciar stare). Non tutto: qualcosa proprio brutto brutto non l’ho scritto, è ancora lì negli archivi, tra le lettere di protesta dei genitori (non sempre molto attendibili!), le inchieste degli ispettori scolastici, le relazioni dei maestri.
Ho quindi deciso di dedicare le prossime puntate di questa rubrica a libri che non ci sono, a personaggi ancora in cerca d’autore, a storie che non sono (ancora?) state raccontare. Storie vere, personaggi reali che per una ragione o un’altra non hanno trovato chi li abbia messi in scena. Perché ingombranti, imbarazzanti, antipatici, nemici, vinti? Perché “è meglio che di queste cose non si parli”? Quante volte ho sentito questa frase.
Effettivamente certi temi li sconsiglierei a un giovane in carriera. Non assegnerei mai a uno studente una tesi di laurea sulla storia del Casinò di Saint-Vincent. E nemmeno sui morti del 1945. Troppo pericoloso e anche troppo coinvolgente. I nostri maestri ci sconsigliavano di occuparci, prima di aver solidamente acquisito i ferri del mestiere, di temi troppo legati a noi. Se un giovane comunista veniva a proporci una tesi di laurea sul PCI nel suo paese veniva spedito a studiare i nazionalisti croati o la formazione del clero nel cuneese. Perché lo storico deve imparare a difendersi dalle passioni, come lo psicanalista: deve imparare ad ascoltare senza giudicare, e ad ascoltare tutti, anche quelli che gli stanno antipatici.
Ricordo che ci fu un tempo, al Dipartimento di storia a Torino, che si era deciso di non dare più ai laureandi tesi sul proprio paese, sulla propria chiesa, sulla propria parte politica, sulla propria famiglia. Uno studente ebreo non doveva studiare gli ebrei, un valdese i valdesi, un valdostano la Valle d’Aosta. Poi non si poté mettere in pratica, ma il principio non era sbagliato: insegnare a distinguere la militanza politica dalla ricerca scientifica. Se voglio fare la storia della Resistenza devo ascoltare con la stessa attenzione i partigiani, i fascisti, i tedeschi, e anche quelli che non erano né da una parte né dall’altra, che erano poi la maggioranza (ne riparleremo). Poi da cittadino faccio le mie scelte, ma come storico ho delle regole da seguire.
Nelle prossime puntate non parlerò quindi di libri esistenti, di storie che sono già state raccontate. Quelle ci sono e chi vuole può andarsele a leggere senza bisogno di una guida. Parlerò di libri che non ci sono, che sono rimasti in un cassetto (dell’autore o dell’editore), di storie che, secondo me, meriterebbero di essere raccontate, di personaggi che aspettano di essere messi in scena, che aspettano ancora di poter dire la loro. Cercando soprattutto di capire perché sono rimasti in silenzio, come i sei personaggi di Pirandello che continuano a muoversi come ombre dietro un sipario.
(continua)