I giudici: «Nessun asservimento di Marco Sorbara ai clan mafiosi»

I giudici: «Nessun asservimento di Marco Sorbara ai clan mafiosi»
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«Nessun asservimento nelle funzioni pubbliche esercitate alle esigenze del clan risulta dimostrato». Lo scrivono i giudici della Corte d'Appello di Torino - il presidente Mario Amato con i consiglieri Roberto Cappitelli e Ilaria Guariello - nelle 640 pagine di motivazioni della sentenza di secondo grado del processo Geenna che il 19 luglio scorso ha assolto l'ex consigliere regionale Marco Sorbara. In primo grado ad Aosta era stato condannato a 10 anni di reclusione. Marco Sorbara pertanto è stato assolto dopo 909 giorni di custodia cautelare. Ha trascorso in carcere 214 giorni, di cui 45 in isolamento, prima di vedersi concedere i domiciliari.

I giudici d’Appello hanno però condannato gli altri quattro imputati: 10 anni di reclusione al ristoratore Antonio Raso, 8 anni l'ex consigliere comunale di Aosta Nicola Prettico e al dipendente del Casinò di Saint-Vincent Alessandro Giachino, entrambi accusati di associazione mafiosa, e 7 anni all'ex assessora comunale di Saint-Pierre Monica Carcea, accusata di concorso esterno in associazione mafiosa.

Nelle motivazioni, i giudici sottolineano come Marco Sorbara, «Non è un politico social, ma un politico abituato a relazionarsi con la gente comune, a fare politica porta a porta, probabilmente teso anche oltre l'obiettivo di diventare quel campione “della calabresità”, a cui mostra comunque di tenere parecchio». E ancora: «Questa sua impostazione tradizionale, oltre che il consolidato rapporto personale con Antonio Raso, lo portano a essere un frequentatore abituale del Ristorante La Rotonda (di cui Antonio Raso è titolare, ndr)». Per i giudici d'Appello non è stato dimostrato la rilevanza penale delle condotte di Marco Sorbara e evidenziano come «L'attività amministrativa dell'imputato è stata messa al setaccio dagli inquirenti, senza che emergessero irregolarità di sorta e men che meno foriere di poter sortire sviluppi in sede penale o contabile». Tant’è che «Un sereno ed attento esame del materiale captativo non consente di ritenere provato che Sorbara stesso ricevette l’investitura preelettorale dal gruppo facente capo a Marco Fabrizio Di Donato», condannato in secondo grado a 9 anni di reclusione con rito ordinario e con il quale, invece, i rapporti erano inesistenti, scrivono i giudici. Un eventuale sostegno di quest’ultimo sarebbe peraltro smentito anche dal tenore complessivo delle intercettazioni relative alla campagna elettorale per le amministrative del 2015, dove «Di Donato mai fa il nome di Sorbara».

Per quanto riguarda la campagna elettorale del 2018, inoltre, le intercettazioni dimostrerebbero perfino «Elementi favorevoli all’imputato», tant’è che il suo nome non compare nell’avviso di conclusione indagini di un altro procedimento, denominato “Egomnia”, nel quale invece compare Antonio Raso. «Una sentenza che restituisce la giusta dignità e moralità a mio fratello, sia umanamente che come politico che ha da sempre creduto nelle istituzioni e lavorato con grandi sacrifici al servizio della comunità. - commenta Sandro Sorbara, fratello e difensore dell’ex consigliere regionale - Sono molto soddisfatto come fratello e uomo di legge. È una motivazione esemplare che, con vaglio accurato dettagliato di ogni aspetto giuridico e anche umano, questo ultimo passaggio dimostra altresì l’esatta applicazione costituzionale del ruolo del giudice, pone al centro l’assoluta correttezza e integrità del mio assistito, in ogni contesto dell’agire umano politico, contabile e amministrativo».

Al di là del caso di Marco Sorbara, però, i giudici affermato che è stata «Provata al di là del limite del ragionevole dubbio l'esistenza di una locale valdostana, capitanata da Marco Fabrizio Di Donato» e che appare «Comprovata l'intraneità alla stessa di Antonio Raso». Secondo i giudici della Corte d'Appello di Torino, il ristoratore Antonio Raso «Pur svolgendo un ruolo fondamentale nella cementazione del gruppo, non mostra in nessuna occasione di esercitare, neppure per delega, poteri decisionali». Da qui la riqualificazione di partecipe del gruppo malavitoso e non più di promotore. Per i giudici, Antonio Raso ha mostrato a più riprese la propria subalternità a Marco Fabrizio Di Donato, e ha svolto una «Incessante opera di “cucitura” sia con il referente politico prescelto come concorrente esterno, che con i soggetti “satelliti” del gruppo stesso». I magistrati ritengono poi l'ex assessora comunale di Saint-Pierre Monica Carcea fosse a disposizione del gruppo criminale “capitanato” da Marco Fabrizio Di Donato. Monica Carcea avrebbe sempre tenuto informati il ristoratore Antonio Raso e Marco Fabrizio Di Donato dei problemi amministrativi e quando aveva bisogno loro sarebbero intervenuti. «Il riconoscimento del ruolo egemone di Di Donato appare netto e inequivocabile» annotano i giudici che agiungono: «Il contributo dell'imputata al neo-costituito sodalizio si appalesa di non trascurabile rilievo consentendo al medesimo una significativa penetrazione istituzionale». Tanto, che il Consiglio comunale di Saint-Pierre nel febbraio del 2020 è stato sciolto per infiltrazioni mafiose.

Prettico, trait d’union con le istituzioni

Sempre la sentenza d’appello rileva che le analisi delle intercettazioni condotte nell’inchiesta (iniziata nel 2014) consente di individuare una «Continuativa opera dei rappresentanti del sodalizio in favore di Nicola Prettico» alle elezioni del 2015, in cui venne eletto consigliere comunale per l’Union Valdôtaine. Il dipendente del Casinò, ritengono i magistrati d’Appello, «Il primo trait d’union del gruppo con gli organi politici elettivi locali», essendo «Collegato intimamente al “cuore” direttivo dello stesso, e non soltanto per la sua risalente conoscenza e frequentazione con Marco Fabrizio Di Donato».

Per quanto riguarda la posizione di Alessandro Giachino «Ogni qualvolta viene chiamato in causa» da altri appartenenti alla “locale” mostra di prestare una «Pronta e costante collaborazione». La sentenza ricorda tra l’altro che «Accetta di accompagnare a Torino l’ex compagno di cella (per questo “fratello”) del suo massimo referente locale pur facendo presente (chissà perché, se doveva trattarsi solo di un passaggio) che per strada era “pieno di sbirri’” ed era presente alla “visita pastorale” in Valle di Bruno Nirta (altro condannato nel rito abbreviato d’appello, a 12 anni e 7 mesi di carcere, per aver coordinato l’associazione criminale valdostana)», monitorata dai Carabinieri nel 2014.

Inoltre, Giachino - ripercorre la sentenza - «Istruisce dettagliatamente la consorte su come comportarsi nel santuario (anche) del crimine calabrese di Polsi, rivendicando la forte amicizia con “Bruno”, del quale, al contempo, prudentemente evita di declinare il cognome al telefono”. Episodio, quest’ultimo, dimostrativo per i giudicanti «Della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato associativo, sotto il profilo della consapevolezza della natura dello stesso e della generalizzata intimidazione prodotta negli occasionali interlocutori».

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