Gemma Moulin di Valgrisenche, commerciante e memoria storica dell’antica tradizione del “drap”
Austera e selvaggia è la Valgrisenche, dove l’omonimo Comune, con il suo capoluogo e i tanti villaggi oggi conta appena 190 persone residenti, deve la sua notorietà anche alla tessitura del «drap», una pratica artigianale considerata una specifica caratteristica tramandata nel tempo. Ed è lassù, a 1.664 metri di quota che vive Gemma Moulin, novant’anni portati alla grande, memoria storica dell’antica tradizione della lavorazione della lana di pecora che riporta il «paese dei tessitori» alle radici del 1700.
Nata il 1° gennaio del 1933 tra le quelle montagne, dove spiccano su tutte la Testa del Ruitor e l'Aiguille de la Grande Sassière che con i suoi 3.751 metri è il punto più alto della vallata, Gemma Moulin è un pozzo di ricordi raccontati con estrema lucidità e simpatia, nonostante l’età avanzata e qualche acciacco fisico. Difficile è capire da dove iniziare, perché nell’arco di pochi istanti Gemma Moulin riassume quasi un secolo della sua vita in «questa, è la valle dove sono nata e cresciuta, dove ho messo su famiglia e dove spero di continuare a coltivare il mio orto».
Figlia di Isidoro, classe 1905, e di Emilie Savoye nata nel 1899, entrambi di Valgrisenche, lui originario del villaggio di Mondanges, lei di Menthieu, la simpatica Gemma parte in quarta alla prima domanda sulla sua vita. E non perde il filo del racconto, neppure durante la pausa caffè, servito nel bicchiere come si fa in famiglia. I suoi genitori si conobbero come succedeva all’epoca nei paesi di montagna: uno sguardo tirava l’altro durante le domeniche davanti alla chiesa prima e dopo la Messa, poi lo scambio di un sorriso, lo sguardo timido di lei, quello fiero di lui. E fu così che Isidoro Moulin (figlio di Jean Grat e di Marie, anche lei Moulin) ed Emilie (nata da Melchior Savoye e Adèle Frassy), nel 1930 diventarono marito e moglie.
Gemma Moulin è la seconda figlia dei coniugi Moulin-Savoye. Prima di lei era nata, nel 1930, la sorella Maria Zita, mentre nel 1935 venne al mondo Irma Maria, madre di Elena Béthaz, l’autrice del libro «Un cuore in vetta» in cui la guardaparco del Gran Paradiso racconta la sua lotta per la vita dopo il fatto drammatico del 17 agosto 2000, quando fu colpita dal fulmine al colle Entrelor tra la Valsavarenche e la Val di Rhêmes.
«Io sono nata per davvero il 1° gennaio - si affretta a spiegare Gemma Moulin -. E voglio che sia scritto, perché un tempo succedeva che i bambini nati gli ultimi giorni dell’anno venissero registrati il primo giorno di quello successivo. Io, invece, ho fatto il regalo ai miei genitori proprio nel primo giorno del 1933. La mia mamma Emilie mi raccontava sempre che quella mattina del 1° gennaio lei era pronta per andare a Messa, perché era domenica, ma quando si incamminò le vennero le doglie. Chi era con lei andò subito a chiamare la levatrice e mio padre la riaccompagnò a casa, dove arrivai io in tarda mattinata. Da che ho i miei primi ricordi rivedo la mia infanzia semplice, fatta di giochi per le stradine di Mondanges dove sono nata e lungo i sentieri della montagna. La nostra era una famiglia come tante altre che, oltre a coltivare l’orto ed i campi di patate, allevava qualche mucca, pochi vitelli e delle capre per la propria sussistenza. All’epoca di soldi non ce n’erano, ma almeno in casa non mancava da mangiare e sulla tavola avevamo sempre una scodella di latte, un po’ di carne e qualche pezzo di formaggio. Si andava a scuola a piedi, con qualsiasi tempo, e la neve d’inverno non ci faceva paura. Semmai per noi rappresentava la felicità di giocare a palle di neve e di imparare a muovere i passi con gli sci di legno nei prati intorno al villaggio. Ho studiato solo fino alla quinta elementare, ma ricordo ancora oggi le maestre Giuseppina Boson e suor Alessia che era di Cogne. Al capoluogo esisteva un convitto che ospitava i bambini dei diversi villaggi della vallata. In quel convitto sono poi andati anche i miei figli Andrea, Angelo e Alessandro. Finite le elementari la mia vita e quella delle mie sorelle è proseguita aiutando nelle faccende di casa e nel lavoro dei campi. Durante l’estate poi si andava al mayen di Menthieu, dove la famiglia dei Moulin aveva vissuto prima di scendere a Mondanges, appena dopo il villaggio di Bonne. L’attaccamento alla mia terra nasce sicuramente dai quei primi anni di vita. In questa valle sono nata e sono cresciuta, ho vissuto mettendo su casa con mio marito Arturo, ho lavorato e cresciuto i miei figli. Il resto del mondo è sicuramente bello, ma è qui in Valgrisenche che io voglio continuare a vivere, finché il Signore ancora me lo consentirà.»
Basta un accenno a un ricordo preciso che Gemma Moulin riprende a spaziare nella sua vita, rammentando anche un’adolescenza fatta di poche uscite con le amiche del paese e tanti momenti trascorsi a giocare alle carte con i fagiolini, al posto dei soldi che non c’erano, come premio per chi vinceva la partita.
È appena poco più che sedicenne la giovane Gemma quando conosce il suo futuro marito, Arturo Bois originario del villaggio di Gerbelle, classe 1922, quindi undici anni in più. «Veniva ad aiutare mio padre a falciare il fieno e a svolgere altri lavoretti. Io ero molto giovane e in paese ci si conosceva più o meno tutti. Lui era un bel ragazzo e ben presto scoccò tra noi la scintilla che nel 1951 ci portò all’altare. Ci sposammo nella chiesa parrocchiale di Valgrisenche e continuammo a vivere a Mondanges, dove abbiamo allevato i nostri tre figli, loro però nati ad Aosta: Andrea nel 1953, Angelo nel 1954 e Alessandro nel 1958.»
Colpisce la capacità di Gemma Moulin - interrotta ogni tanto dalle parole del figlio Alessandro, che dal 1978 gestisce il tabacchino di famiglia proprio al Capoluogo, lungo la strada regionale - di ricordare anche i più piccoli dettagli della propria esistenza trascorsa in una delle zone della Valle d’Aosta, tra più severe dal punto di vista della morfologia del territorio e affascinanti nello stesso tempo.
«Arturo era stato prigioniero di guerra in Germania durante la Seconda Guerra mondiale, ma non ha mai voluto dire troppo di quel brutto periodo. Da lui sappiamo solo che quando fu liberato tornò a Valgrisenche un pomeriggio durante i Vespri e si presentò nella piazza della chiesa dove la sua mamma, Marie Gerbelle, la moglie di mio suocero Edoardo Bois, incredula gli corse incontro ad abbracciarlo, felice e commossa che uno dei suoi tre figli, gli altri erano Uberto e Michele, fosse riuscito a tornare a casa».
Al ritorno a casa per Arturo Bois si apre un nuovo capitolo. Viene assunto come messo comunale per poi passare alle dipendenze della Società Idroelettrica Piemonte, la SIP che costruì la diga di Beauregard e, infine, transitare all’Enel dove il suo lavoro consisteva nelle misurazioni di controllo dell’invaso artificiale la cui costruzione venne ultimata nel 1957, con il conseguente abbandono del «quartiere» di Fornet, con i villaggi di Sevey, Suplun, Fornet appunto, Chappuis, Usellières e Surier.
Sul tavolo della cucina sono due grandi quaderni in cui pagina dopo pagina è riportata, con la bella grafia di Arturo Bois, la storia della famiglia Moulin, con tanto di date, luoghi e racconti che non possono che portare al confronto con la vita attuale, fatta di parole scritte al computer e di messaggistica digitale. Anche il quadro appeso alla parete in cui è rappresentato l’albero genealogico dei Moulin la dice davvero tutta! Ed è così che si torna nuovamente indietro nel tempo. A quando, per esempio, durante gli ultimi mesi di guerra, Isidoro Moulin, il papà di Gemma, osservava con preoccupazione i militari tedeschi quando passavano vicino alla sua stalla. «Quelli sono ormai momenti lontani - dice Gemma Moulin - ma i ricordi, seppure un po’ più fievoli, restano sempre. Con noi bambini i tedeschi erano comunque gentili e ci davano le caramelle. All’inizio non capivo cosa ci facessero dalle nostre parti, tra le nostre montagne, poi con il passare del tempo mi fu tutto un po’ più chiaro, perché quando ero al pascolo e sentivo i colpi dell’artiglieria i miei genitori mi spiegarono che i tedeschi cercavano i partigiani oppure che presidiavano l’alto della valle a causa del Col du Mont.»
«Mondanges, il luogo che considero tutt’oggi la “culla della mia vita” è sempre stato un punto di snodo per le persone che venivano dagli altri villaggi. Mio padre Isidoro, che amava sempre molto chiacchierare con chi lo andava a trovare, era sempre pronto ad accogliere tutti con il sorriso e ad offrire a chiunque una tazza di latte o un pezzo di formaggio. La domenica mattina, la Santa Messa era un’occasione di ritrovo per tutti. Per lui diventava pure l’occasione per fare la “fiocca” che durante l’inverno preparava sbattendola nel secchio immerso nella neve. La panna montata accompagnata dal pane nero piaceva a tutti, grandi e piccoli e ci si ritrovava ogni volta nella nostra stalla.»
Un tempo a Valgrisenche tutte le famiglie avevano il telaio di legno nella stalla, il posto più caldo della casa dove ritrovarsi. Mentre le donne ordivano, girando l’arcolaio, gli uomini tessevano. I bambini giocavano tra questi gesti a loro familiari legati alla produzione dei «draps», caratterizzati dal tessuto ottenuto dalla lavorazione della lana di pecora e che poi erano portati a valle trasportati dal mulo per essere venduti. Purtroppo, il periodo bellico e la costruzione della diga furono per i «tisserands» di un tempo le principali cause dell’abbandono di questa pratica piuttosto antica. Fu grazie a Jean Sulpice Frassy (figlio dell’ultimo «tisserand» di quell’epoca, Joseph Julien Frassy, mancato nel 1950), che la lavorazione dei draps non si perse definitivamente. Jean Sulpice Frassy ebbe, infatti, l’idea di avviare dei corsi di tessitura per la popolazione di Valgrisenche, cosa che, nel 1969, portò alla nascita della cooperativa che oggi è conosciuta con il nome «Les Tisserands» e che nel 2001 ha dato vita a un progetto di tutela e valorizzazione della pecora della razza Rosset, animale di origine autoctona da sempre allevato in Valle d’Aosta.
Gemma Moulin fu una delle prime allieve di Jean Sulpice Frassy e per trent’anni le sue mani hanno toccato, carezzato, coccolato, mosso e lavorato la lana di pecora nel telaio. «Quando Jean Sulpice Frassy avviò i corsi - riprende a raccontare Gemma Bois - io mi occupavo della famiglia e della casa, seguendo la crescita dei miei figli. Tuttavia mi piaceva l’idea di imparare qualcosa che per Valgrisenche era una tradizione ancestrale. Anche la mia famiglia aveva sempre avuto il telaio, ma io non avevo mai imparato a farlo funzionare. Andavo a lezione una settimana la mattina, la settimana successiva il pomeriggio. Ci vollero mesi prima di poter dire di essere diventata davvero brava. Mi piaceva moltissimo, allora non avevo male alle gambe come oggi e si che i miei piedi sui pedali andavano veloci. Quando potevo portavo i miei bambini con me che giocavano insieme ai figli delle altre mamme. Quegli anni trascorsi ad imparare a tessere i “draps” furono importanti per l’intera comunità di Valgrisenche. Lavorare al telaio era diventato un modo di socializzare e per raccontare le storie del paese. Ho lavorato per la cooperativa fino al 1998 poi la mia vita ha preso anche un’altra strada dal momento che, nel 1978, mio figlio Alessandro decise di aprire proprio a Valgrisenche un tabacchino. Sono trascorsi da allora ormai quarantotto anni, di acqua sotto i ponti ne è passata e io, da che la memoria non mi tradisce, di cambiamenti ne ho visti tanti a Valgrisenche come immagino sia stato anche per il resto della Valle d’Aosta. Non ho mai però smesso di coltivare il mio orto e le mie patate. Roba buona. Cose genuine che forse sono il segreto della mia lunga vita? Chissà! Da sempre dico che la nostra vita è ciò che noi mangiamo!».
Gemma Moulin non nasconde l’emozione quando torna a parlare della sua vita al telaio, ricordando pure quando andava alla fontana a lavare i panni d’inverno con la neve e un freddo bestiale. I suoi occhi diventano lucidi anche quando parla del tabacchino dove è rimasta a fianco di Alessandro fino allo scorso anno. Chi l’ha conosciuta non può fare a meno di ricordarla, dietro il bancone, sempre disponibile e cordiale con tutti. Tanto che ancora oggi chi torna a Valgrisenche in vacanza o di passaggio, chiede di lei prima ancora di acquistare un oggetto, piuttosto che il giornale o le sigarette.
«In molti anni di lavoro al tabacchino - sottolinea Gemma Moulin, che vorrebbe tornare presto al mare come lo scorso anno quando è stata in vacanza ad Alassio in Liguria con l’organizzazione della Comunità montana Grand Paradis - ho conosciuto tanta gente. Per questo mi fa piacere sapere che parecchie persone chiedono ancora oggi di me. Il nostro negozio ha rappresentato, in questo ormai mezzo secolo di tempo, un punto fondamentale per il paese che ha sempre potuto contare su un servizio continuo. Purtroppo c’è da pensare al futuro e non ho idea se un giorno questo nostro tabacchino continuerà ad esistere. Fino a quando sarà Alessandro a tenerlo sì. Poi si vedrà, comunque mi piace credere che qualcuno un giorno lo gestirà al posto nostro. Perché anche questo negozio, che mi ha permesso di creare delle amicizie, rappresenta un pezzo di storia della “mia” Valgrisenche e se le sue mura potessero parlare, svelerebbero altre storie di vita, altri racconti della montagna.»