François Cazzanelli: «Quota ottomila, si entra in una zona che non è fatta per essere vissuta dall’uomo»
Marco Cuaz
François Cazzanelli, Aosta, classe 1990, guida del Cervino, è, a detta degli esperti, uno dei più forti alpinisti in attività. Certo, è difficile fare classifiche. L’alpinismo non è solo sport; è cultura, esplorazione, ricerca, forse è la più perfetta metafora della vita (e per questo affascina anche chi alpinista non lo è), con le sue «vie nuove», piste, ripetizioni, varianti, corde più o meno fisse; cadute, valanghe, salvataggi, rischi calcolati e non. Rinunce. Un mondo dove non ci sono classifiche, non ci sono punteggi. Niente ATP o ranking Uefa. Nemmeno regole certe e condivise. Però quando tutti gli esperti danno un voto altissimo...
Da parte mia (che non sono un esperto di alpinismo, ma di libri penso di intendermene abbastanza), posso aggiungere che ho molto apprezzato il suo contributo al volume «Perché lassù» che quasi un anno fa, precisamente il 20 giugno del 2021, avviava la prima puntata di questa rubrica dedicata alla montagna. Rubrica che la settimana prossima, con il giornale in edicola sabato 11 giugno, ripartirà per la sua quinta stagione.
E posso aggiungere che ho molto apprezzato il suo understatement, in un mondo, come quello dell’alpinismo estremo, in cui è difficile sfuggire (magari per logiche imposte dagli sponsor o dagli editori) alle trappole della competitività e alle sirene del divismo.
Lo raggiungo prima della sua partenza, con il suo «maestro», Marco Camandona, e con le guide valdostane Emrik Favre, Jerome Perruquet, Roger Bovard e Pietro Picco, in spedizione per il Nanga Parbat e il K2, nomi da brivido, forse le montagne più difficili del mondo.
François, perché proprio lassù?
«Ci sono alcune “montagne perfette”, quelle che disegnano i bambini, quelle che formano l’immaginario collettivo, quelle che fanno sognare chi ama la montagna. Una è il Cervino che è la “mia montagna”, dove sono cresciuto. Mia mamma è una Maquignaz, i miei antenati hanno fatto la storia di quella montagna. Un’altra è il Cerro Torre, il terribile “grido di pietra” della Patagonia, che ho avuto la possibilità di scalare nel 2014. Mi è rimasto il sogno del K2 per chiudere il cerchio delle “montagne perfette”. L’ho studiato a lungo, ho individuato qualche via nuova, ma è difficile acclimatarsi direttamente sul K2, salire e ridiscendere fino ai Settemila, alla cosiddetta “zona della morte”. Soprattutto per chi come noi non può restare troppo a lungo, facendo di professione la guida e non potendosi quindi permettere di perdere tutta la stagione estiva. Il Nanga Parbat è una montagna mitica ed è anche il luogo perfetto per l’acclimatamento. La grande sfida con cui vuole confrontarsi soprattutto Marco Camandona, che di ottomila ne ha già collezionati dieci, con cui noi da tempo facciamo squadra. Questa volta con l’obiettivo del Grande Slam: Nanga Parbat, K2, Broad Peak».
Che tipo di spedizione sarà? Stile alpino o portatori, corde fisse, ossigeno? Ricerca di vie nuove o piuttosto in velocità?
«Il nostro è un alpinismo esplorativo, a 360 gradi, al di fuori degli schemi. Andiamo sul posto e cerchiamo di adattarci a quello che ci troviamo davanti. Sul Nanga Parbat, il nostro primo obiettivo, andremo al campo base del versante Diamir e poi vedremo un po’ la situazione. Escluderei lo sperone Mummery perché troppo pericoloso e la Messner-Eisendle perché troppo lunga. Forse la via Kinshofer con qualche variante che studieremo sul posto. Bisogna vedere da vicino le condizione della montagna e naturalmente le condizioni meteorologiche. Certamente sarà una spedizione in stile alpino, senza portatori, senza ossigeno supplementare, puntando sulla leggerezza e sulla velocità. Questa è la filosofia del nostro alpinismo. Non escludo per principio l’uso di corde fisse, ma bisogna valutare sul posto, anche la loro affidabilità».
Come vi state preparando per un’impresa del genere? Potete spiegare a noi umani cosa si prova a Ottomila metri?
«Tanto allenamento casalingo: Cervino, Monte Bianco. Tanta bicicletta e corse in montagna. Per gli aspetti burocratici, tutti i permessi, i viaggi, i trasporti, ci siamo affidati a una nota agenzia, la Seven Summit.
Certo gli ottomila sono un’altra cosa. La prima volta, mi ricordo, non sapevo cosa aspettarmi. Sul piano fisico la cosa che ti colpisce di più è una grande fatica in tutti i movimenti. L’operazione più semplice e quotidiana diventa lenta e faticosissima. E poi sempre questa mancanza di aria, la sensazione che l’aria che inspiri non ti basti mai. Ci si rende conto che si entra in una zona che non è fatta per essere vissuta dall’uomo, dove non ci si può fermare, qualcuno riesce a passarci, rapidamente. Io mi sento un privilegiato che riesce ad arrivarci».
Tu sei una guida, un “angelo del soccorso alpino”, per definizione incarni un’idea di montagna come prudenza, come sicurezza. Come mi hanno sempre detto le guide l’obiettivo non è la vetta ma tornare a casa. Come si concilia il ruolo di guida con l’alpinismo estremo?
«In montagna il rischio zero non esiste. Il rischio fa parte dell’andare in montagna. Si può fare il massimo per calcolarlo, per rischiare il meno possibile. Quando faccio la guida, e ho la responsabilità di un cliente, assumo meno rischi possibili. Se vedo un reale pericolo torno indietro. Come guida la sicurezza è la prima cosa. Se sono in cordata coi miei pari siamo pronti a assumerci qualche rischio in più. Sempre rischi calcolati. Certo non farei mai il free solo di Alex Honnold su El Capitan, quella non è la mia idea di alpinismo».