«Fonce» Pastoret: l’ultimo reduce, l’ultimo alpino, l’ultimo deportato

«Fonce» Pastoret: l’ultimo reduce, l’ultimo alpino, l’ultimo deportato
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Ricordava con la sua inseparabile Rina a fianco, nella casa che guardava dall’altra parte della valle, al bordo del villaggio, nel verde. Prima della vecchia latteria, vicino agli amici di una vita, Tobia e Enrico “Rico” Tercinod, cugini primi, Alessio Anselmet, Longino Casassa, Odette Vallet, Cien Margueret, un villaggio bellissimo Buthier, grandi case agricole, tra i prati e i campi, prima dei vasti boschi e degli immensi pascoli, il più popolato di Gignod, con trecento abitanti ora ridotti a poche decine. Da Buthier Alfonso “Fonce” Pastoret - figlio di Tobia e Anselmina Cheillon di Allein, maestra e levatrice - scese ad Aosta per diventare un alpino venerdì 30 gennaio del 1942, aveva diciannove anni, visto che i centouno li ha festeggiati il 22 giugno scorso. E a Buthier fece ritorno una domenica, il 2 settembre del 1945, dopo trentotto mesi di assenza, di guerra, di assedi, di rastrellamenti, di prigionia, di campo di lavoro, tra il Montenegro, l’Albania, l’Austria e la Germania.

“Fonce” Pastoret, che chiaramente non aveva mai visto il mare, lo attraversò per la prima volta un venerdì 17, giorno non propizio, di luglio del 1942. Da Ancona a Zara su di una nave trasporto scortata dai cacciatorpedinieri della Regia Marina, destinazione Nevesinje, un piccolo punto sulla carta geografica dei Balcani, dove si trovava il Battaglione Aosta.

Alfonso Pastoret scomparso lunedì scorso, 3 luglio, al Beauregard di Aosta era rimasto l’ultimo di tutti. L’ultimo alpino valdostano della Seconda Guerra Mondiale, l’ultimo che era stato sotto il fuoco nemico, l’ultimo combattente del Battaglione Aosta, l’ultimo deportato della nostra regione. Un uomo che negli ultimi anni, con lucidità, aveva ripercorso giorno dopo giorno l’epopea della guerra “bastarda” nella Balcania, come si scriveva allora, in quel Montenegro fatto di colline e montagne brulle e sassose, di boschi dai quali i ribelli comunisti, i partigiani guidati da Josip Tito, saltavano fuori per colpire in modo fulmineo, per tendere agguati, con la difficoltà di rispondere al fuoco, di inseguirli.

“Fonce” Pastoret era stato in quei luoghi terribili e soprattutto era stato a Foca, cittadina dell’Erzegovina oggi ribattezzata Sbrnje, dove aveva avuto modo di vedere i risultati degli scontri etnici, mussulmani, serbi cetnici, ustascia croati, centinaia di morti che galleggiavano nel fiume Drina o che si trovavano a mucchi nelle strade. Toccò agli alpini dell’Aosta seppellire quei cadaveri e poi stabilirsi nella città, fortificandola. Bisognava passare l’inverno a Foca, troppo pericoloso rimanere tra le montagne e ad aprile gli alpini si accorsero che intorno alla città l’esercito di Tito aveva chiuso la morsa. Attaccavano di notte e le compagnie dell’Aosta, la 41esima, la 42esima di Alfonso Pastoret e la 43esima li falciavano con le mitragliatrici mentre tentavano di attraversare il ponte per accedere a Foca. Tra i ripari la paura era quella dei cecchini e parecchi alpini caddero così, colpiti senza capire da dove arrivasse il colpo. “Fonce” Pastoret fu il primo a soccorrere il suo capitano Gualtiero Pozzi, colpito ad una gamba proprio da un cecchino.

Quando il Terzo alpini ed i tedeschi liberarono la città, i ragazzi dell’Aosta tornarono tra le montagne a cercare i ribelli, i partigiani comunisti. “Fonce” ricordava benissimo quel giorno a Priboj, quando perse quattro amici, alpini della 42esima, “li lasciammo sotto un castagno” diceva e i suoi occhi guardavano indietro. Alfonso Pastoret era a Danilovgrad quando il comandante del Battaglione Aosta Tito Corsini decise di arrendersi ai tedeschi, era il 10 ottobre 1943, gli alpini avevano atteso oltre un mese per capire cosa fare. Finirono tutti in Albania a Scutari, poi in battello sul Danubio a Vienna e quindi sui terribili vagoni merci fino allo smistamento di Meppen, “schiacciati come sardine, senza niente da mangiare e da bere per 7 giorni”. “Fonce” viene scelto tra i 60 uomini trasferiti a Homberg, cittadina dell’Assia dove si fabbricano le bombe al fosforo. E’ un operaio al limite della denutrizione, ma esistono i tedeschi buoni, il suo collega Willy ogni giorno gli porta qualcosa, come fanno le donne che sostituiscono gli uomini al fronte. Al campo solo brodaglia di foglie di cavolo o di rape per cena e una fetta di pane con poca marmellata a colazione.

Dal settembre 1944 diventa un lavoratore libero, retribuito e continua a lavorare fino al febbraio del 1945 quando il monastero dove dormono viene bombardato. Quel giorno decide di scappare ma sbaglia la direzione, lui e un amico valsesiano vanno a nord anziché a sud. Sono senza cibo in territori sconosciuti quando incontrano due gendarmi, non li arrestano neppure vedendo le loro condizioni, li portano in un insediamento della Croce Rossa. Alfonso Pastoret il giorno di Venerdì Santo del 1945, il 30 marzo, sale sulla torretta del campo e vede arrivare gli americani, che però non si fermano per inseguire il fronte. Deve aspettare ancora cinque mesi prima di essere portato in Svizzera e da qui a Chiasso e Milano, poi ad Aosta e con le ali ai piedi a Buthier, domenica 2 settembre appunto.

Nei giorni successivi scende ad Aosta e con alcuni amici in Croce di Città entra al Bar Ferrero. Una bella ragazza dietro ad banco lo guarda e gli chiede se è di Buthier, lei è Rina Henriet del Planet, ha ventidue anni, essendo nata nel 1923. Si vedono solo quel giorno ma si incontrano nuovamente tempo dopo, quando Rina diventa la nuova maestra di Buthier, da allora non si lasceranno più. Insieme condividono la passione per la terra e l’allevamento, si sposano e nel 1950 nasce il loro primo figlio Ennio, proprio a Buthier, in casa, la levatrice è la nonna Anselmina, un personaggio straordinario. Nel 1956 scendono ad Aosta, affittano la cascina dei Rivolin della conceria che si trova nella zona di Saint-Marcel de Corléans a cavallo della ferrovia, in parte nella zona dove sorge poi la Polma con i depositi di carburanti e in parte dove viene edificato il quartiere del viale Europa. “Fonce” e Rina vedono la campagna ridursi anno dopo anno, tra vendite ed espropri e la loro bella cascina per venti mucche è sempre più piccola. Nel 1962 prendono in gestione la latteria dietro al Palazzo Cogne, visto che le loro vacche rimangono in piano anche in estate e quindi vendono il latte fresco ogni giorno, sino a che la legge lo consente. Nel 1960 nel frattempo è venuto al mondo Edi e dopo un’esperienza come autista alla Garosci a Pollein Alfonso e Rina tornano a Buthier, dove nel frattempo, hanno ristrutturato la casa di famiglia. Fino che hanno potuto hanno allevato e curato le loro mucche, portando il latte nella vicina latteria e vivendo in simbiosi con il mondo di Buthier, fatto di lunghe e divertenti veillà, di aiuto reciproco, di solidarietà.

“Fonce” non parlava volentieri della guerra, ma con l’età ha consegnato i propri lucidi ricordi affinché potessero essere conservati e trasmessi. Si è messo al servizio della memoria, portando nelle scuole la sua testimonianza, insieme all’altro centenario, nonché cugino primo, Enrico Tercinod. Alfonso Pastoret un uomo dolce che raccontava cose terribili, che ricordava di come il regime dell’epoca avesse fatto credere ai giovani italiani di essere invincibili, partendo da Buthier verso il Montenegro, per poi accorgersi amaramente di quanto tutto fosse diverso da quello che leggeva e ascoltava alla radio.

Al Beauregard di Aosta Alfonso Pastoret si è spento lunedì e mercoledì Gignod lo ha salutato. Le ceneri dell’ultimo degli ultimi da ieri, venerdì 6, riposano nel cimitero del paese, a fianco a quelle di Rina.

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