Da Valgrisenche alla Corea, spinto dalla fede: Marino Bois

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«Quest’anno pensavo di passare in Italia i mesi di luglio e di agosto, ma ho capito che la situazione in quasi tutti i paesi europei è ancora molto tesa a causa del COVID 19, e ho pensato di rimandare al prossimo anno la visita alla mia cara Vallée». Così scrive da Seoul il coadiutore salesiano Marino Bois. La sua lettera ci dà l’opportunità di contattarlo per parlare della sua vita e della sua lunga esperienza missionaria.

«Sono nato a Valgrisenche il 7 giugno 1942. Quando frequentavo le scuole elementari Valgrisenche era un paese al cento per cento praticante la religione cattolica. Il parroco, il canonico Edouard Bérard, dopo cinquant’anni anni di apostolato aveva creato una comunità nella quale la fede si respirava insieme all’ossigeno. Quando si ritirò per passare gli ultimi tempi solo con il suo Signore, le cose cambiarono: metà della popolazione dovette emigrare per lasciare posto alla grande diga allora considerata un capolavoro di tecnologia. Dei Valgriseins della diaspora, una parte andò in Francia, un’altra nel Canavese e numerose famiglie trovarono spazio per una nuova vita in vari paesi della Valle d’Aosta. La nostra famiglia - ricorda Marino Bois - era composta dai genitori Francesco Bois e Virginia Bethaz, dalla nonna Metilde Barrel e da nove figli: oltre a me, Camillo, Saverio, Giovanni, Luigi, Maria, Angela, Anna e Lucia. Mio padre seppe di una casa in vendita a Pontey, circondata da prati, vicino alla chiesa, e ne fu subito entusiasta, anche perché nelle vicinanze c’era la nuova scuola elementare. Il clima religioso non era quello di Valgrisenche: si viveva nel pluralismo, sia in campo religioso sia per quanto riguarda le idee politiche. Anche lì però trovammo un parroco in stile curato d’Ars - don Lorenzo Henriod - che con grande fatica cercava di riportare la comunità agli antichi fervori. Verso la fine delle elementari il parroco Henriod diverse volte mi parlò del seminario ma io ho sempre pensato che quel discorso non mi riguardasse.»

Invece per Marino Bois la vocazione non avrebbe tardato a manifestarsi. «Nel 1955 venni accettato all’Istituto Don Bosco di Châtillon. Allora era gestito dalla Comunità Salesiana, c’erano sacerdoti giovani e anziani, oltre a due chierici che si interessavano dell’assistenza, dell’insegnamento classico e della formazione religiosa. Tutto ciò che riguardava l’insegnamento tecnico era gestito da insegnanti vestiti da laici: venni poi a sapere che erano religiosi salesiani. Questi insegnanti mi sono subito piaciuti, ho pensato che Don Bosco avesse fatto sul serio! Da allora la mia vocazione non ha più avuto dubbi: se il Signore mi apre la porta io lo seguo. Proprio così è capitato.»

La figura del coadiutore salesiano che Marino Bois incontrò al Don Bosco di Châtillon era comunque quella di religiosi a tutti gli effetti, come i sacerdoti e i chierici. Vive la sua vita comunitaria, condivide preghiera e Messa, professa gli stessi voti di povertà, carità e obbedienza, ma mantiene il suo stato di laico. «Dopo il noviziato - racconta Marino Bois - venni inviato all’istituto Rebaudengo in Torino dove era il corso triennale per i salesiani coadiutori, futuri insegnanti nelle scuole tecniche. Gli allievi potevano scegliere tra meccanica, elettricità, elettronica e, a quei tempi, si insegnava anche falegnameria e sartoria. Ho trovato persone meravigliose con grandi capacità e tanta gioia di seguire l’ideale di Don Bosco.»

«Così arrivato alla fine del terzo anno, mi sembrò del tutto naturale fare la domanda per le missioni. Avevo letto qualche articolo sulla situazione in Corea, avevo conosciuto don Rinaldo Facchinelli e avevo avuto la possibilità di dialogare con lui. Mi parve normale chiedere di essere destinato in Corea. In seguito venni a sapere che un altro confratello era stato accettato. Io fui inviato a San Benigno a fare il mio primo tirocinio con i giovani. In seguito, il consigliere per le missioni don Modesto Bellido mi inviò una lettera, chiedendo se ero ancora disposto a partire. Ringraziai il Signore per la bella notizia.»

La famiglia di Marino Bois però non era nuova al servizio nelle missioni. «In effetti la vocazione missionaria la considero in un certo senso parte del DNA di famiglia. Due zie erano tra il gruppo internazionale che aveva fondato le Suore di San Giuseppe in India. Avevo un cugino Gesuita in Madagascar, padre Giustino Béthaz, deceduto recentemente. Fu lui ad invitare le Suore di San Giuseppe di Aosta in Madagascar. Ora le Suore malgascie della Congregazione sono presenti, in diversi paesi e anche ad Aosta; tra loro c’è pure mia sorella, suor Metilde Bois, che attualmente vive con molta fede e coraggio, la sua situazione di invalidità nel convento di Aosta.»

Quindi per Marino Bois dopo la rinnovata disponibilità a partire alla volta della Corea arrivò il momento della partenza, che è rimasto ben nitido nei suoi ricordi. «Partii da Genova per Hong Kong, dove dovetti aspettare il visto di entrata in Corea; alla fine trovai un posto sull’aereo per Seoul e il giorno di san Ignazio incontrai la piccola comunità salesiana di quella città. Venni destinato alla scuola di Kwangju, la prima opera salesiana in Corea. La scuola era nata con l’idea di diventare un istituto professionale ma iniziò come una normale scuola media. Si cominciò con un laboratorio di falegnameria, mentre il coadiutore Giacomo Comino - attualmente in Africa - allestì un mini laboratorio di meccanica. L’intenzione era di formare confratelli e aspiranti come futuri insegnanti tecnici. Io mi sentivo felice perché dopo sette anni di esperienza trovavo un po’ di spazio per il mio mestiere.»

«Dopo il primo anno che ero a Kwangju, si decise - continua Marino Bois - di acquistare un terreno nella periferia di Seoul dove sarebbe sorta la scuola. Al noviziato avevamo costruito un capannone dove installammo le macchine provenienti dal piccolo laboratorio di Kwangju. Questa mini opera fu davvero provvidenziale. In quel periodo soggiornava al noviziato e frequentava il primo anno in una scuola di lingua coreana per i missionari Marc Cuvelier, un chierico belga che mi aiutava in laboratorio. Il contatto con una persona di grande esperienza tecnica mi aiutò a superare situazioni che da solo non sarei mai riuscito a risolvere. La nuova opera prese il nome di Don Bosco Youth Center. Don Rinaldo Facchinelli, diventato economo delle opere salesiane in Corea, ebbe l’idea di sistemare una parte di terreno in maniera da poter iniziare subito i lavori. Appena terminata, la nuova casa ospitò alcuni confratelli, un gruppo di aspiranti che frequentava il seminario e altre scuole; c’era anche posto per un piccolo oratorio e per altre attività giovanili. Nel settembre del 1966, Marc Cuvelier mi consigliò di frequentare per alcuni mesi la sua stessa scuola per migliorare la lingua coreana; dopo tre mesi capivo tutto e parlavo con molta spontaneità. In seguito sempre lo stesso sacerdote mi disse: “Da gennaio cerchiamo dei giovani che possano frequentare la nostra scuola e insegniamo loro il mestiere”. Noi avremmo provveduto all’insegnamento tecnico; teoria, pratica e disegno, per le altre materie furono individuate delle persone adatte. L’apertura della mini scuola tecnica avvenne il 3 marzo 1967.»

L’inizio dell’attività scolastica fu un’esperienza entusiasmante. «In effetti - ricorda Marino Bois -, nonostante qualche difficoltà, tre anni passarono in fretta, gli insegnanti avevano preparato gli allievi per gli esami di Stato della scuola media e all’esame di qualifica: furono promossi tutti. Malgrado la povertà dei nostri mezzi, l’esperienza era stata positiva. Nelle fabbriche della periferia c’erano tanti giovani venuti dalla campagna per lavorare ma che spesso venivano sfruttati. Abbiamo così deciso che sarebbero stati loro i destinatari della nostra missione.»

«In realtà - continua Marino Bois - al “Don Bosco Youth Center” avevamo già cominciato a occuparci degli adolescenti operai. Il 3 marzo del 1972 finalmente le nuove costruzioni erano agibili; la scuola aveva la sua sede e c’erano tutte le attrezzature necessarie per dare ai giovani un buon mestiere. Nel frattempo facemmo domanda per aprire un pensionato. Il 12 dicembre 1974 il primo cardinale coreano, Kim Su-huan (Stefano), intervenne per la benedizione dei nuovi locali ed ebbe la grande gioia di vedere un’opera funzionale. Il nuovo pensionato aveva settanta posti; in seguito con alcune modifiche il numero dei pensionati salì a cento. Anche gli allievi della scuola serale continuarono ad aumentare. Nel 1988, nel centenario della morte di Don Bosco, ricevettero il diploma novantanove giovani. Oltre a loro erano una ventina i giovani che avevano cominciato altri corsi serali per avere un diploma in più, ma a quel tempo lasciare uscire un giovane dopo solo otto ore di lavoro, anche con il permesso del padrone, era ritenuto un cattivo esempio per gli altri compagni e capitava spesso che i lavoratori studenti dopo qualche mese non venissero più accettati in fabbrica!»

Fu questo un serio problema da risolvere per Marino Bois. «Avevamo sviluppato una piccola sezione di produzione e lì impiegammo questi giovani. Inizialmente ci furono alcune difficoltà per riuscire a trovare le mansioni adatte, per avere ogni mese il denaro da dare loro affinché potessero vivere e studiare. Fu una scelta indovinata: dopo pochi mesi di esperienza i ragazzi erano in grado di produrre dei lavori di qualità ricercati dagli imprenditori locali. Quindi addirittura avevamo bisogno di più spazio per aiutare un maggior numero di giovani, tanto che il direttore don Michele Molero e l’economo Giacomo Comino riuscirono, con l’avvio di un nuovo progetto, a innalzare di due piani la sezione delle aule e degli uffici. Il 23 dicembre 1989 la costruzione venne inaugurata e il problema della carenza dei posti venne risolto definitivamente.»

Con il raggiungimento di quel traguardo importante però per Marino Bois arrivò pure il momento di cambiare continente. «Difatti. In quel periodo la congregazione si lanciò nel progetto Africa, perché i Vescovi di quell’immenso continente chiedevano ai Salesiani di aprire delle scuole tecniche. Il superiore delle missioni mi disse che le richieste di sacerdoti per l’Africa erano tante, ma i Salesiani preparati per le scuole tecniche erano sempre meno. Mi fece la proposta di iniziare un periodo di due anni di servizio in Africa. Riconoscente al Signore per le grandi cose che avevo fatto al Don Bosco di Seoul, mi sentii in dovere di accettare, mettendo però l’accento sui “due anni”.»

«All’inizio mi avevano parlato del Sudan. Con il nuovo anno scolastico - continua Marino Bois - avevo cessato tutti i miei impegni ma il visto di ingresso nel paese non arrivava. Il consigliere delle missioni mi contattò: “Vieni subito a Roma, ti dobbiamo inviare in Guinea”. Partii per la Guinea Conakry insieme all’Ispettore del Messico Pascual Chavez che in seguito, dal 2002 al 2014, diventò il Rettore Maggiore dei Salesiani. Lui era anche responsabile per lo sviluppo delle opere salesiane in quella nazione. La scuola da avviare era in un villaggio vicino alla città di Kankan, a 800 chilometri dalla capitale. Venni a sapere che tra i missionari presenti, nessuno aveva l’esperienza per iniziare una scuola tecnica. Dall’arrivo dei Salesiani erano già trascorsi quattro anni e non c’era ancora nessun piano preciso.»

«L’economo del “Don Bosco”, Giacomo Comino, sapendo che il giorno della partenza si avvicinava, aveva raccolto da amici, ex allievi e benefattori, ventimila dollari. Don Chavez vide in questo il segno della Provvidenza e disse subito: “Marino ci sono i soldi, vai a Torino ed acquista il necessario per aprire una sezione di meccanica”. Mi diedero un biglietto di andata e ritorno valido per un mese. La prima settimana, sulla vecchia Fiat 500 presa in prestito da mio fratello Saverio di Pontey, girai tutte le scuole tecniche, visitai i depositi di materiale dove trovai tante attrezzature di base che mi fecero risparmiare parecchio. La seconda settimana visitai i magazzini di utensileria per avere i preventivi, la terza settimana feci le ordinazioni, compresa quella di tre container per la spedizione. Con l’aiuto di mio fratello Saverio riuscimmo a caricare tutto prima che il biglietto di ritorno scadesse. A conti fatti, avevo speso oltre quarantamila dollari. L’aiuto della Provvidenza era stato grande. Dopo un mese e mezzo il materiale arrivò in Guinea e la settimana successiva cominciammo ad allestire il laboratorio di meccanica. In autunno si iniziò con i primi quindici giovani. Alla festa dell’Immacolata del 1991 venne il Vescovo per l’inaugurazione, celebrò una Messa solenne e come l’usanza vuole in quelle occasioni si ammazzò un bue che un benefattore locale aveva donato. Ci fu riso con spezzatino di bue per tutto il villaggio.»

Però il tempo di Marino Bois in Guinea stava già finendo. «Tutto era tranquillo sino a quando non ricevetti una lettera il cui contenuto era il seguente: “I confratelli hanno ottenuto il tuo visto per il Sudan, vieni a Roma al più presto”. Pensai: “Al nuovo superiore per le missioni il sole ha dato alla testa, come è possibile che con tutto quello che c’è da fare qui in Guinea mi voglia mandare a Khartoum!” Il mio direttore però lesse la missiva e rispose: “Questa è una lettera di obbedienza: non si discute, si esegue”.»

«Così dovetti partire, obbedire. Partii per il Sudan dove il nostro superiore per le missioni venne poi a trovarmi, mi ringraziò e mi disse: “È vero che il tuo periodo in Africa sta per terminare, ma siccome abbiamo tanto bisogno di te, non potresti rinnovare per altri due anni?”. Mi sentii mancare, tuttavia riuscii a dirgli con sincerità che psicologicamente non ero preparato per vivere a lungo in Africa, visto che la forza di andare avanti nasceva dal desiderio di tornare presto in Corea. Gli diedi il nome della persona che al posto mio avrebbe fatto molto bene: il confratello coadiutore Giacomo Comino. Lui e don Vincenzo Donati, un sacerdote che dopo trent’anni trascorsi tra Giappone e Corea aveva sentito la vocazione per l’Africa, sono riusciti a fare di quella scuola a Khartoum un posto meraviglioso al servizio dei poveri e anche dei giovani carcerati.»

Quindi il ritorno in Corea avvenne, non senza qualche problema. «Mi ci volle un po’ - ricorda Marino Bois - per sentirmi di nuovo ben inserito in Corea. All’inizio del 1997 ero direttore della scuola tecnica “Don Bosco” di Seoul. Il nuovo ispettore don Stanislao Vaclav, ogni volta che mi incontrava mi parlava delle difficoltà per reperire il personale per la nuova scuola che l’ispettoria coreana stava costruendo in Cina. Dopo avere preparato il terreno venne il giorno in cui mi comunicò: “Andiamo a vedere cosa fanno i confratelli in Cina”. Feci finta di non capire, ma l’invito era chiaro. Ringrazio il Signore per il dono degli anni - quasi diciassette - passati in Cina. Restai sino a quando le autorità decisero che dopo i sessantacinque anni di età non veniva più rinnovato il visto a coloro che erano entrati nel paese come esperti.»

Perciò per Marino Bois si riaprirono le porte della Corea che tanto ama. «Lasciata la Cina venni appunto richiamato in Corea; al “Don Bosco” di Seoul per i festeggiamenti del cinquantesimo anniversario del Centro Giovanile si intendeva pubblicare un libro. Mi diedero un ufficio, mi portarono dei documenti, album di fotografie e tutto quello che poteva servirmi per impostare il lavoro che fu poi concluso da uno specialista. Grazie anche alla pubblicazione del libro le cerimonie commemorative furono un successo. Gli ex allievi avevano finanziato tutto; con i soldi avanzati abbiamo acquistato due torni nuovi per la scuola di Elobehid, in Sudan, dove erano entrate solo macchine di seconda mano. Con l’appoggio economico di ex allievi e di benefattori e la cooperazione del centro missionario diocesano, portando pezzi di ricambio nuovi dalla Corea sono riuscito a fare risuscitare macchine di valore che erano tecnicamente morte. Pensavo che fosse il tempo di dare l’addio definitivo al Sudan e passai alla scuola che avevo inaugurato nel lontano 1991. Il direttore, che era stato inviato con il compito di riportare la scuola al livello dei tempi migliori, mi esortò: “Per la meccanica non ho nessuna esperienza, devi venire ad aiutarmi”. Mi sono presto reso conto che il lavoro da fare era tanto; ritornato in Corea, mi hanno dato il permesso di rimanere in Sudan cinque mesi, ma a causa del Coronavirus non sono potuto partire».

Così Marino Bois è rimasto a Seoul, dove nel 2018 ha ricevuto un importante riconoscimento. «Ricordo questa grande gioia per me, per i Salesiani, per gli allievi e gli ex allievi. E’ stato un premio che ha contribuito a fare conoscere il nostro lavoro. L’Ilga Award - Ilga significa “una famiglia” - viene assegnato dalla Fondazione omonima alle persone che si sono dedicate alla costruzione di una comunità d'amore, seguendo le orme del maestro Kim Yong-ki, cristiano metodista fervente, fondatore del movimento, che continua a incoraggiare la promozione rurale nelle zone depresse. I membri della Fondazione Ilga credono nell’importanza dell’ecumenismo e il premio viene donato senza distinzione di razza, nazionalità e religione.»

Ora, in attesa della fine della pandemia, a settantanove anni compiuti a giugno, il servizio di Marino Bois prosegue a Seoul, dove è assistente della sezione ex allievi e scrive un’opera sulla vita del fondatore dei salesiani in Corea, don Archimede Martelli. Grazie alla tecnologia mantiene sempre i contatti con gli amici ed i famigliari in Valle d’Aosta e nelle email che invia loro si firma con il cognome nella grafia orientale, simboli il cui significato è «Bosco, fedeltà, fede».

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