Covid-19, ricerca sugli animali dopo il caso di un gatto risultato positivo
Con la pandemia di Covid-19 la preoccupazione per il benessere degli esseri umani e degli animali pone domande importanti in merito alla prevenzione e alle buone pratiche in caso di diagnosi positiva. Oltre a ciò, è stato sollevato un ulteriore dubbio per i proprietari di animali da compagnia: i cani e i gatti possono essere infettati o possono trasmettere il virus? È di qualche mese fa la notizia trasmessa dai laboratori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte Liguria e Valle d’Aosta che hanno identificato il primo caso di variante inglese in un gatto. Da bibliografia è la prima segnalazione a livello nazionale. I sintomi respiratori nel gatto sono comparsi una decina di giorni dopo l’insorgenza della malattia e dall’isolamento domiciliare dei suoi conviventi. Grazie al tempestivo intervento del Servizio Veterinario della Asl di Novara, i campioni del test sono stati trasmessi all’Istituto Zooprofilattico dove è stata diagnosticata la positività al Covid-19, e dove, a seguito di ulteriori accertamenti, è stata accertata la presenza della variante inglese. Il gatto, come i suoi proprietari, ora sono in via di guarigione. «La positività del gatto non deve generare allarmi. - osserva Bartolomeo Griglio, responsabile della Prevenzione della Regione Piemonte - A causa della malattia dei loro proprietari, gli animali d’affezione si ritrovano a vivere in ambienti a forte circolazione virale. Non è dunque inatteso che anch’essi possano contrarre l'infezione, ma non esiste evidenza scientifica sul fatto che giochino un ruolo nella diffusione del Covid-19. Il contagio interumano rimane la principale via di diffusione della malattia». Sul piano della gestione sanitaria degli animali di pazienti infetti, la raccomandazione generale è di adottare comportamenti utili a ridurre quanto più possibile la loro esposizione al contagio. Il Ministero della Salute finanzia il progetto “Suscettibilità dei mammiferi a Sars-CoV-2: rischi di zoonosi inversa e possibilità in medicina traslazionale”. La ricerca sta per essere avviata da tutti gli Istituti zooprofilattici sperimentali d’Italia ed è coordinata dall’Istituto delle Venezie. La Sezione valdostana è a Quart e il primario è Riccardo Orusa. «Il nostro obiettivo - precisa Riccardo Orusa - è investigare quanto sia suscettibile il virus alle specie più vicine a noi, che abbiano maggiore possibilità di contatto. Da cani e gatti agli animali di allevamento. Ci stanno per arrivare i kit diagnostici». Quali esami farete? «Sia sierologici, sia biomolecolari. - risponde Riccardo Orusa - Lo scopo è rilevare quale sia la presenza reale del virus e la sua circolazione. Una sorveglianza passiva biomolecolare su animali domestici e selvatici, con campioni di carcasse. E indagheremo sempre su tutto il territorio nazionale l’esposizione pregressa al virus con specifici test sierologici. Di qui il documento finale che quantifichi il rischio di infezione nelle varie specie con eventuali piani di emergenza e sorveglianza». Lei quindi parla di test anche sui selvatici. «Certo e noi a Quart, come centro di referenza nazionale per le malattie dei selvatici, - riferisce Riccardo Orusa - faremo entro l’anno l’elenco delle priorità di specie e indicheremo agli istituti di tutta Itali i principali attuativi per la ricerca». Quali selvatici testerete? «Dai carnivori agli ungulati. - elenca Riccardo Orusa - Lupi e volpi, poi cinghiali, quindi camosci, cervi e caprioli. Infine, mustelidi».