Corrado Binel è il nuovo presidente dell’Istituto Storico della Resistenza
Martedì scorso, 7 giugno, il Consiglio Direttivo dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in Valle d’Aosta ha eletto il suo nuovo Presidente che sarà in carica fino alle fine del 2023 scadenza naturale del mandato dell’attuale Consiglio. Con questa intervista vorremmo scoprire qualcosa di più del nuovo Presidente e cosa pensa del futuro dell’Istituto nella cultura e nella società valdostana.
Prima di entrare nel merito ci vuole raccontare qual è la sua prima reazione di fronte a questo ruolo importante e per molti versi non facile?
«Difficile dire. Sono ormai diversi anni che siedo in questo Consiglio e dunque la prima reazione è forse, molto concretamente, nel segno degli impegni presenti e futuri che sono molti. Poi però devo dire con tutta franchezza che ho ripensato a tutti coloro che in passato, dal 1974 ad oggi, hanno ricoperto questo incarico. Con alcuni di loro ho avuto un rapporto personale molto particolare. In primo luogo con Émile Chanoux e Dudo Dolchi ma anche con César Dujany e infine con François Stévenin e non nascondo di avere una chiara percezione non tanto e non solo della responsabilità che questa posizione comporta ma forse, soprattutto, dell’idea che questo ruolo si inserisce in una prospettiva che ha una relazione con la nozione di eredità e con il “Peso dei padri”; due questioni affrontate tra l’altro da due grandi filosofi italiani. Ne sono perfettamente consapevole».
A proposito di filosofia, lei ha un percorso universitario e di formazione a dir poco originale. Ce lo vuole raccontare?
«Originale se visto dall’esterno ma non se visto dall’interno di quella curiosità che muove qualsiasi studioso. A 19 anni volevo iscrivermi a filosofia ma sapevo che avrei deluso mio padre, anzi, credo che l’avrei ferito. Così, alcuni anni dopo mi sono laureato in storia dell’architettura con Carlo Olmo, uno storico, laureato in filosofia e in lettere moderne. Una cosa questa che oggi, a distanza di 43 anni, mi fa pensare a Alvar Aalto al quale era stato impedito, nel progetto del Sanatorio di Paimio in Finlandia, di portare le finestre fino a terra e lui ha semplicemente piegato il pavimento portando fin sotto le finestre».
Poi però ha proseguito i suoi studi in Francia.
«Infatti, nel 1981 mi sono trasferito in Francia dove sono stato per molti anni. Ho avuto il mio Diplôme d’Études Approfondies (D. E. A.) all’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) sotto la direzione di Hubert Damish, filosofo e storico dell’arte di grande notorietà e qualche anno dopo il dottorato in storia contemporanea sempre all’EHESS di Parigi ma questa volta sotto la direzione di quella personalità straordinaria che fu Louis Bergeron, uno storico molto noto anche in Italia».
La sua tesi di dottorato fu infatti pubblicata proprio sul primo numero dei Cahiers du Centre de Recherche Historique nel 1988. La rivisita fondata da Louis Bergeron nel quadro dell’EHESS. Lei però ha avuto anche un rapporto particolare con lo storico Stuart J. Woolf.
«Mi fa piacere ricordarlo. Conobbi Stuart Woolf alla metà degli anni Settanta ma fu solo nei primi anni Ottanta che cominciammo a frequentarci a Parigi dove lui era impegnato all’EHESS ma soprattutto nelle sue ricerche agli Archives Nationales. Non sono mai stato suo allievo ma devo dire che la sua frequentazione per molti anni, anche quando si trasferì a Firenze all’istituto Universitario Europeo, ha sicuramente influito sui miei studi e i miei interessi».
Per venire ora all’Istituto Storico della Resistenza, come interpreta lei il ruolo di questa istituzione nella cultura e nella società contemporanea?
«In primo luogo mi lasci ricordare che L’Italia è un caso unico. A differenza di altri paesi, quali la Francia ad esempio, dove la documentazione archivistica relativa agli anni della Resistenza è confluita nel sistema degli archivi nazionali pubblici, in Italia è confluita nella Rete degli Istituti Storici della Resistenza. Un percorso iniziato dal CLN piemontese fin dal 1945. Dal 1951 gli Istituti della Resistenza sono diventati il luogo della conservazione della memoria della Resistenze e poi, per estensione, il principale motore, benché non l’unico, della storiografia italiana sull’antifascismo e il periodo resistenziale. Ancora oggi a distanza di quasi 80 anni è bene ricordare questo ruolo memoriale dell’Istituto. Come è noto però, L’Istituto ha consolidato nel tempo un ben più ampio ruolo quale centro di ricerca sulla storia contemporanea e non solo».
Quale altro ruolo lei crede sia oggi di primaria importanza?
«Le sembrerà banale ma non è scontato. C’è un rapporto strettissimo tra democrazia e istruzione. La scuola, i centri della formazione in senso lato, sono e saranno anche in futuro uno dei pilastri della democrazia. Contribuire alla formazione, portando anche uno sguardo sulla storia della Valle d’Aosta moderna e contemporanea è una questione decisiva. È una sfida tanto nel merito dei contenuti quanto nelle forme della comunicazione. Come ha molto giustamente rilevato Nadia Urbinati, il rapporto tra democrazia e educazione è centrale nella tradizione democratica. È l’interiore capacità di “giudicare da se stessi”. L’Istituto è molto impegnato in questa direzione e lo sarà ancora di più in futuro».
Gli Istituto Storici della Resistenza sono negli ultimi anni coinvolti in alcune polemiche di carattere storico-ideologico. Lei come si pone di fronte a queste situazioni?
«Questa è un’ottima domanda. Vede, la ricerca storica e più in generale la ricerca nel campo delle scienze sociali, non diversamente dalle scienze in senso lato, non possono essere tirate per la giacca da nessuno e tanto meno per ragioni ideologiche. L’Istituto nasce come espressione plurale della società italiana alle fine della guerra e come tale deve difendere l’indipendenza della ricerca. Per questo, ma anche per molti altri motivi, gli Istituti Storici della Resistenza sono dei presidi della democrazia e come tali si devono comportare».
Quali compiti vede nel futuro dell’Istituto in Valle d’Aosta?
«La ricerca storica è inesauribile. Credo che quanto in corso sul tema dell’Annessionismo possa dare interessanti esiti se questa vicenda verrà affrontata con un certo respiro. Personalmente ho sempre creduto che la storia delle idee che hanno animato la storia del Novecento in Valle d’Aosta sia ancora in gran parte da scrivere e come hanno dimostrato l’ultimo volume di Momigliano e gli studi di Désandré si tratta di un lavoro ormai imprescindibile. Ad esempio sul tema delle idee che hanno animato il federalismo valdostano in relazione alle vastissime elaborazioni sul tema in Italia come in Francia. Un tema questo che sta tornado di attualità. Basta ritornare con la memoria a recenti interventi di Macron piuttosto che di Draghi».
Nella prospettiva che ha appena evidenziato quale ruolo crede possano avere le collaborazioni con altre istituzioni nel mondo della ricerca e della cultura?
«Mi fa piacere chiudere questa nostra conversazione su un tema che mi sta particolarmente a cuore. Io credo con grande determinazione nell’importanza di espandere e consolidare i rapporti in particolare con la Fondation Émile Chanoux e con l’Università della Valle d’Aosta ma anche con istituzioni francesi tanto del mondo della ricerca quanto con parallele istituzioni come la Fondation de la Résistance che ha avuto tra i suoi fondatori figure straordinarie come Germaine Tillon, Marie-Claude Vaillant-Couturier o Jean-Marie Domenach ma anche Georges Valbon, primo presidente eletto del Conseil Général della Seine-Saint-Denis dal 1967 al 1982, il cui padre, pastore di capre, era nato a Nus nel 1896».