“Ci credevano pazzi, abbiamo scalato il mondo” Marco Camandona e i tre “Ottomila valdostani”
La coesione e la qualità del gruppo, la preparazione delle Guide Alpine della Valle d’Aosta, determinazione, sacrifici, elasticità e studio analitico delle condizioni meteo e della montagna sono state le carte vincenti che hanno portato la spedizione “The way for the K2… la montagna impossibile” a raggiungere in 2 mesi 3 Ottomila senza ossigeno supplementare: Nanga Parbat, Broad Peak e K2. La squadra, formata da membri dell’Unione Valdostana Guide di Alta Montagna e dell’Associazione valdostana Maestri di Sci, ha centrato tutti i suoi obiettivi: tutti e 6 i partecipanti hanno toccato la vetta di almeno una delle 3 montagne. Salendo Nanga Parbat e Broad Peak, il veterano Marco Camandona, guida alpina della Società Guide di Valgrisenche, ha firmato l’undicesimo e il dodicesimo ottomila della sua carriera. Pietro Picco della Società Guide di Courmayeur ha portato a casa tutte e 3 le vette: Nanga Parbat, Broad Peak e K2, per altezza rispettivamente la nona, la dodicesima e al seconda montagna della Terra. François Cazzanelli della Società Guide del Cervino e il venticinquenne Jerome Perruquet - aspirante Guida di appena 25 anni e membro della Società Guide del Cervino - hanno conquistato Nanga Parbat e K2. Emrik Favre della Società Guide di Ayas e Roger Bovard delle Guide di Valgrisenche sono arrivati in vetta al Nanga Parbat, il secondo tra l’altro al suo esordio sugli Ottomila. Oltre alle performance sui 3 giganti pakistani, la spedizione ha registrato risultati significativi già nella fase di acclimatamento. Come la salita - che non faceva parte del piano originale - al Ganalo Peak (a 6.608 metri), una cima secondaria del Nanga Parbat, raggiunta in stile alpino, senza alcun tipo di informazione preventiva sulla montagna, con un bivacco a 6.000 metri e difficoltà tipiche delle più belle creste di neve e ghiaccio delle Alpi.
La coppia Cazzanelli-Picco ha messo a segno un altro primato, realizzato proprio a inizio spedizione: l’apertura di una nuova via sul Nanga Parbat che i due hanno chiamato “Valle d’Aosta Express”, in onore della regione e dell’Unione Guide Valdostane. La via si sviluppa dapprima su un seracco verticale alla base del Nanga, per proseguire su pendii nevosi sempre più ripidi. La parte finale - tecnicamente la più difficile - è caratterizzata da lunghezze di misto che portano in cresta a 6.000 metri, fino al punto di congiunzione con la via Kinshofer (la Normale della montagna), per un totale di 1.800 metri di salita dal campo base.
«All’inizio l’assessore Jean-Pierre Guichardaz, sentendo del nostro progetto, era incredulo, ma ci ha dato comunque fiducia. - spiega Marco Camandona - A volte credere a progetti fantasiosi e pazzi diventa vincente. E la nostra impresa ha fatto il giro del mondo, regalando alla Valle d’Aosta una grande risonanza mediatica. A distanza di ormai 45 giorni, abbiamo grandi ricordi, immagini straordinarie e un exploit da raccontare che testimonia la professionalità di guide e maestri di sci e la forza di un gruppo coeso nel raggiungere gli obiettivi che si è dato. Anche i più giovani sono riusciti a dare il massimo, motivati e ben consigliati inizialmente dai colleghi più esperti, che ne conoscevano le potenzialità, poi a loro volta sostegno e fonte di entusiasmo per gli altri».
Da un lato la tecnica e la preparazione fisica e mentale, dall’altro l’empatia che si è creata e il desiderio di superare insieme grandi difficoltà, talvolta impreviste, senza mai essere di peso ai compagni. «La difficoltà maggiore è stata restare motivati per 2 mesi. - continua Marco Camandona - Di solito, raggiunto un obiettivo, che sulle Alpi dura al massimo 3 giorni, ci si ferma. In Pakistan invece abbiamo affrontato 2 mesi di lotta continua contro la montagna. Vinta solo grazie all’unione. Basta una titubanza per rovinare l’atmosfera e la carica generale».
Un’altra grave difficoltà è stata doversi rapportare ai cambiamenti climatici. «Nelle immagini si vedono giornate perfette, che non sono state di certo frutto del caso, ma sono state cercate al 100 per cento insieme ai meteorologi, con i quali al campo base elaboravamo di continuo le mappe meteo. - racconta Marco Camandona - Quando eravamo al campo base del Nanga Parbat ha nevicato per 2 giorni e mezzo, è caduto un metro e mezzo di neve, dopodiché lo zero termico si è attestato a 6.500 metri. Non era mai successo e si è creato un grande pericolo per l’accumulo di così tanta neve su pareti verticali. Ci ha aiutato solo l’esperienza. Anche quando Cazzanelli ha aperto la via nuova ha potuto farlo perché ha trovato le condizioni perfette di freddo e bel tempo. Una settimana dopo sarebbero cadute in testa pietre o valanghe. In 10 giorni di caldo cambia tutto. Le decisioni vanno prese sul momento con capacità di analisi e la forza dell’esperienza. Anche la tecnologia aiuta: la via è stata prima visionata attraverso un drone per capire dove si poteva passare e dove no. Comunque, se questi sono stati alcuni dei momenti più complessi, tutta la spedizione lo è stata, con tanti obiettivi così concatenati. Basti pensare che per arrivare al campo base del Nanga Parbat abbiamo percorso 100 chilometri in jeep e 100 a piedi, di cui 75 sul ghiacciaio, e dopo 5 giorni a piedi siamo arrivati bagnati fradici». Oltre alle difficoltà, non sono mancati gli imprevisti. Come nel caso di Cazzanelli che - a quota 8.000 metri sul Broad Peak - si è fermato allo scopo di attivare i soccorsi per l'incidente di un alpinista britannico precipitato e deceduto, decidendo poi di tornare indietro, abbandonando il tentativo di vetta. Da parte sua, Emrik Favre ha dovuto lasciare il campo base e rientrare anzitempo in Italia, rinunciando così al sogno del K2 a causa di una bronchite che lo ha colto dopo il successo sul Nanga Parbat,.
Ma qual è stato il momento più emozionante per il leader della spedizione? «Sicuramente l’arrivo dei miei compagni, il 28 luglio scorso, in vetta al K2, dopo 22 anni da quando lo avevo raggiunto con Abele Blanc, quasi lo stesso giorno: il 29 luglio 2000. - risponde Marco Camandona - Quello mi ha dato più soddisfazione perfino delle mie salite. Una tensione che non avevo mai provato prima: stare fermo al campo base a incitare, incoraggiare e consigliare François, Jerôme e Pietro, cercando di dare la giusta interpretazione a meteo e terreno non è stato facile. Prendere delle decisioni per gli altri che rischiano la vita su una montagna così impegnativa, ma anche tanto amata dagli alpinisti, è stato difficile. Per il riscaldamento globale era una montagna completamente diversa; io ero arrivato al campo 1 su neve, loro su un misto di ghiaccio e roccia, nel passaggio dal 2 al 3 hanno trovato solo roccia, invece della neve che c’era nel 2000, ed è stato più difficile. Sicuramente il fatto che fossero già acclimatati per via della precedente ascesa al Nanga Parbat ha accelerato molto la salita. Io ero salito 16 volte al campo 2 in 2 mesi di spedizione».
Ora nei progetti futuri di Marco Camandona ci sono gli ultimi 2 Ottomila: «Spero che qualcuno dei colleghi più giovani mi segua in questo finale di carriera. Me ne mancano solo 2 su 14. Sarebbe un peccato rinunciarvi».