Brusson, funerali tra lacrime e ricordi
«L’essere umano vive in città, mangia senza fame e beve senza sete, si stanca senza che il corpo fatichi, rincorre il proprio tempo senza raggiungerlo mai. E’ un essere impegnato in una prigione senza confini, dalla quale è quasi impossibile fuggire. Alcuni esseri umani però a volte hanno bisogno di ripensare le proprie vite, di ritrovare una strada maestra. Non tutti ci provano, in pochi ci riescono. Alessandro era uno di questi». Il parroco di Brusson don Michele Giachino ha scelto parole di Walter Bonatti per l’ultimo saluto ad Alessandro Letey, il freerider di Aosta travolto e ucciso, a soli 31 anni, da un’enorme valanga che si è staccata, giovedì 20 maggio, dai 3.600 metri di quota del Col de l’Aiguille Verte, sul versante francese del Monte Bianco. Insieme a lui, ha perso la vita un altro tra i più noti freerider valdostani, Alfredo Canavari, 49 anni, di Saint-Pierre. Il funerale di Alessandro Letey è stato celebrato la mattina di mercoledì 26 maggio, alle 10, nella chiesa parrocchiale di Brusson, dove il trentenne aveva vissuto infanzia e prima adolescenza, dall’asilo alla terza media. Nonostante vivesse da anni ad Aosta e tornasse solo occasionalmente a Brusson, tutto il paese, insieme a parenti e ad amici accorsi anche da altre località, si sono stretti in un abbraccio collettivo ed emotivamente intenso intorno alla mamma Lauretta Leveque, al papà Vittorio e alla sorella Lidia.
L’amico coscritto di Alessandro Letey, André “Dede” Champretavy di Introd, lo definiva - insieme agli altri amici - “la guida non guida”, perché sapeva che conoscenza dettagliata avesse dei tracciati per lo sci fuoripista, della nivologia (da lui definita «Scienza non esatta») e della sentieristica per le mountain bike. «Non lo seguivo a sciare perché, pur praticando a mia volta lo sci alpinismo, sono a un livello tecnico inferiore. - racconta André Champretavy - Alessandro scendeva da pendenze da 45 a 60 gradi, era un vero cultore dello sci ripido, nel quale, qualora fosse stato uno sport riconosciuto, sarebbe stato all’apice. Invece era un semi-professionista. Insieme andavamo soprattutto in mountain bike, su suo consiglio avevo acquistato la bici nuova sperando di poter riprendere le escursioni con lui non appena avesse smesso di sciare. Ho anche intrapreso un percorso per diventare maestro di mountain bike, che però ad Alessandro non interessava perché preferiva le avventure estreme con gli amici. Era così lanciato nel mondo degli sport che era capace di alzarsi a mezzanotte per andare a camminare».
Don Michele Giachino è arrivato a Brusson, luogo di origine della mamma Lauretta Leveque, insegnante elementare, nell’anno della sua terza media e ha conosciuto Alessandro Letey al catechismo per la Cresima. Serba ancora il ricordo di una gita, dove il ragazzo lo aveva accompagnato alle miniere di Chamousira, facendogli da cicerone e mostrandogli dal punto più alto la valle sottostante. Il parroco rammenta ancora, oltre alla sua gioia nell’andare in mountain bike, il particolare trasporto con cui guardava le vette. «Per lui quella per la montagna era una vera passione, non un vanto per le imprese compiute. - assicura don Michele Giachino - Un fuoco, che lo faceva stare meglio con se stesso e con gli altri, e che nelle persone più sensibili si moltiplica alla massima potenza». Tanto che don Giachino gli aveva scattato una fotografia, di spalle mentre osservava il panorama, che spesso utilizzava anche nel giornalino parrocchiale. Durante la Messa, don Michele Giachino ha sottolineato più volte come la passione per l’alta quota equivalga ad avere pensieri alti, a ricercare un dialogo più diretto e intimo con se stessi e a comprendere meglio la vita.