Antonio Rosset, la passione per il rumore della pietra e il silenzio della montagna

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Le emozioni provate lavorando fin da ragazzino, per quarantadue anni, nella cava di pietre scoperta dal padre nel 1968 a poco più di un chilometro dopo il villaggio di Vieyes, e che hanno fatto sì che Antonio «Toine» Rosset si innamorasse di questo lavoro, sono state salvate nel libro «Il rumore della pietra» edito recentemente dalla Tipografia Duc, che ha fissato le vicende di quel luogo fino al 2016, Inizialmente Antonio Rosset non pensava di farne un volume di ricordi, aveva scritto degli appunti solo per non perderli appunto - «Quando ho iniziato non immaginavo certo che sarebbero stati pubblicati e non è stato semplice mettere a nudo i miei sentimenti, scavare nelle emozioni» - poi ha avuto l’idea di farli leggere all’amico nonché noto critico d’arte Alberto Fiz, che lo ha incoraggiato ad arrivare all’edizione, che è andata a buon fine anche grazie al prezioso lavoro di Carlo Rossi.

Tutti i personaggi del libro sono reali, è una storia vera, è l’affresco di un periodo, un «racconto di formazione», come si legge nella prefazione di Alberto Fiz, «Dove la cava è un luogo fisico e sentimentale intorno al quale si svolge l’azione che permette la crescita intellettuale e psicologica di Antonio, da apprendista cavatore a imprenditore. “Toine” è un cavatore che non pensa solo a far tremare il sottosuolo, ma instaura una dialettica con gli elementi, si sente in completa connessione con la materia. Descrive con entusiasmo, per esempio, il suono della pietra quasi fosse una nota musicale e le emozioni suscitate dal profumo della terra appena smossa, ancora umida, nella quale, quando era triste da bambino, cercava una consolazione e che tante volte era stata un’amica di giochi».

Nato a Cogne il 13 gennaio 1957, da Rodolfo Rosset di Ollomont classe 1926, descritto come vulcanico e temerario, e Rita Guichardaz della Veulla di Cogne, di sei anni più giovane, Antonio è il primogenito di tre fratelli e una sorella: dopo di lui sono Michelino «Michel» nel 1959, Annamaria nel 1962 e Attilio nel 1964. Il papà Rodolfo era arrivato a Cogne nel 1952 per lavorare nella miniera di Colonna e due anni dopo nel 1954 si era sposato con Rita. Già a Ollomont, a sedici anni, aveva lavorato nella miniera di rame, dove era stato assunto con la mansione di «botcha-feur», cioè il ragazzo dei ferri, che aveva il compito di portare i ferri per spingere le cariche di esplosivo appena forgiati ai minatori.

Dell’infanzia a Cogne, «Toine» Rosset ricorda le corse in slitta a perdifiato: «Nei primi anni Sessanta le strade diventavano piste di neve, che senza auto non si scioglieva facilmente. Dopo la scuola, verso il crepuscolo, si formava una carovana di slitte, legate l’una all’altra, i più grandi di tredici-quattordici anni stavano davanti e i più piccoli sballottati dietro. Partivamo dall’Hotel Bellevue per arrivare a Cretaz. Quando arrivavamo alla Piasse de Gian bisognava affrontare la curva e, siccome le slitte avevano già preso una certa velocità, gli ultimi si ribaltavano e quindi o risalivano al volo sulla slitta oppure la rincorrevano». Antonio Rosset ha frequentato l’asilo a Cogne, ancora quando la sede era nel vecchio edificio dell’attuale municipio, dove ci si scaldava con la stufa a legna. Poi, nell’anno scolastico 1963-64, iniziò le elementari nella nuova scuola - prima e seconda insieme, le altre classi divise perché c’erano molti bambini - che è quella di via Cavagnet, con la maestra Pierina Guichardaz di Cogne, della quale conserva un buon ricordo e che lo ha accompagnato fino alla quinta. «Tutti i bambini avevano il grembiule azzurro, colletto bianco e fiocco blu scuro. L’anno successivo, invece del fiocco, i maschietti avevano due pon pon blu scuri», rievoca Antonio Rosset. «Quando entrava l’insegnante, tutti si alzavano dicendo “buongiorno signora maestra” e si sedevano solo a un suo cenno.»

Dai dodici ai quattordici anni ha trascorso le estati nell’alpeggio di By Farinet nella conca sotto di Grand Combin, la terra di origine del papà Rodolfo, gestito da Giovanni Jotaz, carismatico allevatore che fu a lungo pure sindaco di Ollomont e presidente dello Sci Club By, con ben centosessanta mucche da latte più una cinquantina tra vitelli e manzi, dove si lavorava dalle 2 del mattina, iniziando con la mungitura, e si andava a oltranza fino alle 21. A quei tempi molti bambini erano mandati in alpeggio, per tutto il periodo estivo. «Non è stata un’esperienza negativa, ho apprezzato la natura e capito per la prima volta il valore del lavoro. Nella mia prima stagione avevo dodici anni e mio fratello Michelino dieci.»

Dopo le elementari Antonio è stato in collegio al Seminario minore di Aosta, dove è attualmente il Liceo classico e dove ha frequentato le medie. Successivamente al Collegio Gervasone di Châtillon per essere vicino alla Scuola alberghiera regionale all’epoca in centro a Saint-Vincent, dove «Mi sarebbe piaciuto studiare inglese, francese e tedesco e dopo tre anni andare all’estero per perfezionarle, ma l’esperienza è durata solo quattro mesi. E i miei genitori mi hanno indirizzato verso il lavoro nella cava, che papà aveva scoperto nel 1968, lavorandoci nei momenti liberi dai suoi turni in miniera.»

All’individuazione del giacimento seguirono quasi tre anni di complicate trattative per acquistare da tanti proprietari quel pezzo di terreno. Alla fine degli anni Sessanta l’edilizia cominciava a fiorire e per Rodolfo Rosset arrivarono le prime richieste da parte di chi voleva rivestire in pietra la casa in costruzione. Essendo da solo, per soddisfare queste prime forniture, adottò quindi un sistema molto diffuso: in cambio di un discreto sconto, il cliente si impegnava ad aiutare a spaccare e caricare sul motocarro le pietre che gli servivano. Antonio Rosset è entrato nella cava a quindici anni, nel 1972, l’anno in cui il padre è andato in pensione dalle miniere, che chiuderanno definitivamente nel 1978, dedicandosi a tempo pieno, non più solo in estate, a questo lavoro, fianco a fianco con Rodolfo e a seconda dei periodi con due, tre o quattro operai. Tra Rodolfo e «Toine» notevoli erano le differenze caratteriali: «Se si doveva acquistare un macchinario nuovo, secondo lui indispensabile, io già avevo nostalgia di quello vecchio. L’ultimo dei suoi problemi era come fronteggiare una spesa, per me quello invece era un gran tormento».

Nel 1977, a vent’anni anni, Antonio Rosset è partito per un anno di servizio militare a Oulx nella caserma operativa «Monte Assietta», dove erano centoventi alpini: «Sono state più le notti dormite fuori in sacco a pelo che in caserma. Nel febbraio 1978, facendo parte il Battaglione Susa, unico reparto alpino del contingente della Nato, siamo stati mandati per un mese intero in Norvegia, dove abbiamo partecipato a vari addestramenti militari, trascorrendo l’intero periodo su un altopiano ai confini con la Lapponia, in un accampamento con temperature che sfioravano i quarantacinque gradi sotto lo zero. Ricordo ancora l’aurora boreale, ammirata quando si facevano le perlustrazioni notturne con gli sci o quando, a turno, bisognava stare fuori dalla tenda per le guardie.»

Tornato a casa nell’agosto 1978, l’anno successivo, a ventidue anni, Antonio costituisce, insieme ai fratelli Michelino, che veniva dalla Scuola alberghiera, e Attilio, la prima ditta «Rosset Rodolfo & figli». La pietra bianca di Vieyes, essendo un materiale lamellare, si prestava particolarmente come rivestimento per i pilastri e come pietra da muro di vari spessori per le case. «Avevamo anche iniziato a preparare capitelli, scalini, davanzali e tavoli per esterni, tutti a spacco naturale e lavorati a punta e mazzetta sulle coste.»

Unica altra passione di Antonio, oltre alla cava, è stata la montagna, ma solamente dopo i cinquant’anni anni «ha deciso di prendersi il sabato libero» e accompagnato dalla guida Elmo Glarey, cognein amico di gioventù, morto nel maggio 2010, ha scalato alcune vette importanti della Valle d’Aosta, tra le quali la vicina Grivola, il Ciarforon, l’Herbetet, il Grand Combin e la Dent d’Herens.

«Se all’inizio erano alcuni amici di mio padre che venivano a darci una mano, poi la cava è diventata una vera e propria attività che ha assorbito tutta la mia vita», racconta Antonio Rosset, che era affascinato anche dai dettagli, come le minuscole radici degli alberi che si infilavano nelle fessure della pietra, e dal suono dei cunei quando venivano a contatto con la mazza. «Talmente totalizzante che ho sentito l’esigenza di fissare le sensazioni che provavo mentre lavoravo e per descrivere come veniva estratto il materiale e le storie di alcuni operai, come quelle di “Miccia”, il migliore amico di mio padre, oppure di “Casablanca” e di “Pino Trak”, che era soprannominato così per il termine con cui concludeva spesso le frasi.»

Il luogo comune è che il minatore e il cavatore debbano essere di corporatura robusta, invece anche i fisici più snelli possono essere forti. «La forza bisogna saperla usare, diceva mio papà Rodolfo. C’era ad esempio Severino Petey di Aymavilles, padre dell’attuale sindaca Loredana e di Marco, che era piccolo di statura e infatti lo chiamavano “Lo petchù Petey”. Mio papà, che aveva lavorato in coppia con lui nella miniera di Colonna, diceva sovente che, pur essendo più esile, sapeva coniugare forza e tecnica, in modo da svolgere lo stesso tipo di lavoro dei colleghi apparentemente molto più robusti.»

La pietra che usciva dalla cava di Vieyes all’inizio degli anni Ottanta diventava sempre più apprezzata, amata dai valdostani, che la impiegava nelle diverse tipologie sia all’esterno che all’interno delle loro abitazioni, da La Thuile a Gressoney, da Champorcher a Ollomont.

Nel 1983 per la famiglia Rosset arrivò una svolta importante. «Iniziammo - ricorda Antonio Rosset - a produrre i blocchi da telaio, che vennero acquistati dalla ditta Vuillermin Gualtiero di Verrès, che ebbe l’abilità di lanciare questo materiale denominato Pietra di Cogne sul mercato, realizzando pure opere di notevole prestigio, tra le quali rammento la sede della ditta produttrice dell’Amaretto di Saronno, il pavimento del salone della concessionaria Ferrari di Torino, la parete della concessionaria Peugeot a Quart, l’entrata del tunnel del Monte Bianco, il logo della Regione Valle d’Aosta, oltre a scalinate e rivestimenti esterni di tante importanti ville in Svizzera, a Montecarlo, in Piemonte e altrove. La pietra bianca, invece, venne denominata Pietra di Vieyes. E così furono registrati due marchi.»

Nel frattempo, nel 1981 Antonio aveva preso il patentino di fochino per il brillamento delle mine e poi nel 1987 la ditta Rosset acquistò il «derrick», la gru a tralicci di cui tutte le più importanti cave non possono fare a meno.

Agli inizi degli anni Novanta, tuttavia, il padre Rodolfo scelse di smettere e, da lì a poco, anche il fratello più giovane Attilio prese la stessa decisione. Non potendo Antonio restare da solo, con tre operai, a gestire la parte operativa e quella burocratica, propose quindi all’aostano Leo Guglielminotti, proprietario della nota ditta con sede a Chavonne di Villeneuve, e ad Enzo Lazzeri, socio della Morgedil, di formare una nuova società. Nacque così nel giugno del 1991 la «Pietra di Cogne», con soci Leo Guglielminotti, Enzo Lazzeri e appunto Antonio Rosset, tanto che dopo circa un anno chiuse la «Rosset Rodolfo & figli».

Per arginare l’andirivieni di operai più o meno volenterosi e alcuni però inaffidabili, la ditta fece richiesta al Consolato cinese di Milano di tre operai specializzati nella lavorazione della pietra, garantendo loro il lavoro a tempo indeterminato e una casa. Fu così che a febbraio del 2001, approdò a Vieyes lo scalpellino Hu Yunzhe, una settimana dopo arrivò Cheng Buli che era un bravo falegname e, dopo un mese, Lin Chaolong che in Cina faceva vari lavori, tra cui il pescatore. Tutti e tre arrivavano dalla regione di Zhejiang. «A causa della crisi del 2008 - dice Antonio Rosset - la ditta “Pietra di Cogne” decise di vendere, compresi tutta l’attrezzatura e il materiale già estratto, alla società “Cave di Senagj” che faceva capo a Daris, Donato e Dimitri Luboz, proprietari della cava di fronte alla nostra. Dalle “Cave di Senagj” è arrivata la proposta molto allettante di diventare loro dipendenti, poiché avevano la necessità di personale già esperto e capace. Mi ha dato grande soddisfazione ricominciare come responsabile di entrambe le cave e per di più in compagnia dei miei più stretti e affezionati collaboratori: i due cinesi che avevano lavorato con me per dieci anni, Lin Chaolong e Zhao Pei Chun. Nella primavera 2010 venimmo dunque assunti dalla “Cave Senagj”. Mi occupavo del giacimento che per anni avevo guardato dal versante opposto della valle. Fu un periodo interessante, anche se aspettavo di poter intervenire al più presto pure nella “nostra” cava di famiglia, anche se ormai venduta ma nel mio cuore sempre “nostra”, anche per portarla a un giusto esaurimento. Il che purtroppo non avvenne mai perché nell’agosto 2016, anche la “Cave Senagj” chiuse definitivamente.»

Oggi, quando «Toine» Rosset torna alla cava è sovrastato dai pensieri di un lavoro che è stato innanzitutto una passione: ricorda il ragazzo che aveva il timore che la sua cava si esaurisse troppo in fretta e ora invece osserva l’ultima bancata la cui coltivazione è rimasta incompiuta, chiedendosi come è al suo interno, se ci sono sfaldature o venature di ruggine o ancora delle rotture. Tutti interrogativi che rimarranno senza risposta, conservati dalla cava insieme ai ricordi dei boati delle mine, dei rumori dei martelli perforatori e dei colpi di mazza, oltre alle forti emozioni e ad una parte delle ceneri di colui che l’ha scoperta, Rodolfo Rosset, scomparso nei primi giorni di ottobre 2017.

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