Addio al partigiano Yves Francisco di Verrès, che si salvò grazie agli sci di Primo Levi

Addio al partigiano Yves Francisco di Verrès, che si salvò grazie agli sci di Primo Levi
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Era il 13 dicembre 1943. Primo Levi, insieme a Luciana Nissim e a Vanda Maestro, sono ammanettati, nella piazza di Brusson. Levi era salito in montagna subito dopo l’armistizio dell’8 settembre. «Davvero non sapevamo nulla. Dovevamo inventare la Resistenza: fare il partigiano era anche un mestiere da imparare». In questa intervista Primo Levi dice «noi» alludendo alle due amiche e agli altri compagni arrestati con lui poco più su, ad Amay, nell’albergo Ristoro. Durante quelle prime settimane di un’Italia occupata per due terzi dalle truppe tedesche, e governata dalla Repubblica di Salò, la risoluzione di «andare in montagna» era un’incognita.

Yves Francisco, nato il 28 ottobre del 1924, di Verrès, scomparso martedì 13 settembre scorso (lascia il figlio Elvis), era caduto insieme con Primo Levi nel rastrellamento del 13 dicembre e pochi anni fa ha ricordato quei momenti per un documentario Rai. Yves Francisco nel 1943 era un giovane falegname, nipote dei proprietari del Ristoro di Amay. È nato a Reims da una coppia di emigrati valdostani di idee antifasciste. Gli piace sciare, per questo frequenta Amay. «Era la notte del 13 dicembre del ’43. - racconta nel documentario - Io ero venuto a trovare i miei zii. All’alba ho sentito degli spari, era la milizia confinaria che veniva su da Châtillon, risalivano la mulattiera. E loro hanno sparato alla gente del villaggio, pensavano che fossero quei partigiani che erano nascosti su a Frumy. Sono arrivati su e ci hanno circondati».

Il racconto di Yves Francisco è il filo conduttore del cortometraggio «Gli sci di Primo Levi» che Bruna Bertani ha realizzato per Rai5.

Dall’albergo Ristoro, Primo Levi dovette allontanarsi più volte. Una parvenza di banda partigiana cominciava a prendere forma: «Ci era giunta voce che in una valle secondaria, sopra Nus, c’era un vecchio socialista che aveva un fienile a quota duemila e rotti e che in questo fienile c’erano dei mitra. - ricordava Francisco - E noi siamo partiti, a piedi naturalmente, di notte, ci siamo fatti tutti questi chilometri dal Col de Joux a Nus e poi da Nus su fino al fienile, abbiamo svuotato il fienile - che era un lavoro da bestia - in mezzo alla neve, e abbiamo trovato un caricatore di pallottole di legno, di quelli che servono per esercitazioni. Uno. Ed essendo ancora persone civili abbiamo rimesso a posto tutto il fieno, prima di ridiscendere a valle».

All’alba del 13 dicembre Maria Varisellaz, proprietaria del Ristoro e zia di Yves, fu arrestata anche lei dalla milizia fascista, con l’accusa di aver ospitato «ribelli» e giudei. «Poi - racconta Yves Francisco - ci hanno fatto scendere al villaggio e ci hanno allineati lungo questo muro». I fascisti minacciavano di fucilarli tutti. Ma non potevano, rileva Yves Francisco, perché nessuno di loro era armato, tanto meno la maestra della scuola elementare, lei pure al muro con gli altri. Condotti a valle in manette, Primo Levi e Yves Francisco finirono in prigione insieme. «Io non sapevo che fosse Primo Levi» racconta ancora nell’intervista. «Quando Primo Levi si era rifugiato qui dai miei zii aveva portato con sé anche l’attrezzatura di montagna. Aveva un bel paio di sci, che quando ci hanno arrestato sono rimasti lì da mia zia». Primo Levi fu avviato a Fossoli e di lì ad Auschwitz, mentre Yves Francisco fu liberato; più tardi avrebbe disertato la chiamata alle armi della Repubblica di Salò, decidendo di riparare in Svizzera. Si doveva però evitare la funivia che sale dal Breuil al Plateau Rosa, presidiata dai fascisti. Lungo altri sentieri Yves Francisco aveva già percorso diversi chilometri quando dovette fermarsi: «Bisognava avere gli sci per andare in Svizzera. Era ghiacciaio, era un’avventura di alta montagna. E così son tornato indietro, di notte, prendo gli sci di Primo Levi e all’alba partiamo su».

Dopo un intero giorno di cammino arriva in Svizzera. Gli sci di Primo Levi diventarono la sua salvezza. «Quando la guerra volgeva al termine, in aprile, sono tornato indietro da solo, sono sceso da questa parte con gli sci e li ho riportati là dove Primo Levi li aveva depositati da mia zia».

La storia di quegli sci non finisce qui. Fra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945 la Svizzera accoglie la principessa di Piemonte Maria José. Conclusa la guerra, il 29 aprile 1945 Maria José decide di rientrare in Italia clandestinamente, accompagnata (anche) dal giovane capitano degli alpini Alberto Deffeyes. Al confine con l’Italia, trova ad attenderla un’automobile di partigiani che la scorta fino al castello di Sarre da cui venti mesi prima era partita.

In un punto non precisato, l’itinerario di Maria José e del suo seguito incrociò quello di Yves Francisco che aveva ai piedi gli sci di Primo Levi. Qualcuno notò gli attacchi di quegli sci: modello Kandahar, con cavo a molla metallico e leva anteriore di serraggio, permettevano sia di procedere a tallone libero sia di bloccare maggiormente il piede. Uno degli accompagnatori della principessa decise di smontarli, sostituendoli con un modello più antiquato. Solo qualche tempo dopo Primo Levi ritrovò e recuperò i suoi sci dalla zia di Yves Francisco. Senza gli attacchi Kandahar.

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