«A proposito di libri ancora da scrivere»

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Nel senso evocato nella prima parte di questa riflessione, Parigi non è solo la “capitale del XIX° secolo” per riprendere la nota definizione di Walter Benjamin, ma è una capitale del nostro tempo anche prima, anche nell’età della République des Lettres. Una “Repubblica invisibile ma nient’affatto clandestina” per riprendere ciò che scrisse Marc Fumaroli. Una “Repubblica” nata in Italia e anche dal Petrarca che, in seguito, ha avuto a Parigi il centro della sua maturità. Una storia questa tutta da scrivere. Ritornare oggi sulle pagine dell’Abbé Henry o su quelle, per certi versi del tutto speculari di André Zanotto, fatta salva qualche nota di colore, ci permette di percepire quale immenso cantiere ancora sia lì in attesa di colti e rigorosi studiosi che vogliano rendere intellegibile la natura più profonda e articolata di uno “spazio” di cui la Valle d’Aosta è parte. Perché è di uno spazio che si tratta. Quanto la Valle d’Aosta sia parte di questo “spazio” emerge in modo quasi dirompente nell’ultimo volume di Paolo Momigliano Levi dal titolo “Passaggi”. Il rapporto e la partecipazione della cultura valdostana all’età “boulagiste” e alla prima metà della Troisième République, al vento reazionario e antisemita della fine del XIX° secolo, al di là del pur necessario giudizio di merito, dimostra ancora una volta che il centro di questo spazio è Parigi e che è necessario distinguere il perimetro statuale dal perimetro d’influenza cultural-politica della Francia. E veniamo ora alla bella citazione di Marco Cuaz probabilmente attribuibile a Édouard Aubert secondo cui: «…les Savoisiens et les Valdôtains ne devaient pas être divorcés». - Purtroppo invece - «la Vallée d'Aoste sera noyée comme un atôme dans ce vaste royaume italien, qui ne va tarder à se constituer».

Questa riflessione apre a due grandi questioni. La prima è quella dalla fine dello “spazio” geografico, storico e culturale della Maison de Savoie che ormai da Torino guarda alla costruzione del progetto stato-nazionale italiano. Sul lato opposto si muovono importanti protagonisti. Come ha ricordato lo storico Alessandro Galante Garrone, nella fase che va da Plombières al 24 marzo 1860, le élite della destra bonapartista non stanno a guardare. Ad esempio Paul Granier de Cassagnac, «catholique d’abord, monarchiste en suite, impérialiste après», e come lui molti altri, lavorano attivamente alla nascita della nuova frontiere della Alpi. La seconda questione infatti, è quella di essere un “atôme noyé dans un vaste royaume”. Aubert sostiene che questo sia il destino di una Valle d’Aosta italiana ma, come dimostra la storia della Savoia contemporanea, questo naufragio è frutto di un destino inevitabile. Da una parte o dall’altra la Valle d’Aosta sarebbe comunque “annegata”, così come la Savoia, in un progetto stato-nazionale che non le apparteneva. Anche questo è un libro tutto da scrivere. Quello del confine della Alpi occidentali che, tanto quanto quello delle Alpi orientali, rappresenta una sfida epocale per il mondo alpino. Un mondo per sua natura plurale, plurilinguistico, pluriculturale, plurireligioso. Un mondo chiuso e aperto allo stesso tempo. Centro di molte contraddizioni. Uno spazio “pericoloso”, che pur ospitando alcuni dei fenomeni del peggior etno-identitarismo, è anche uno spazio possibile di rimessa in discussione della dimensione puramente stato-nazionale dell’Europa occidentale. Uno spazio laboratorio di una diversa visione possibile dell’Europa. Mi piace anche pensare che non sia un caso che siano le Alpi il contesto in cui ha luogo il confronto serrato tra Settembrini e Naphta ne “La Montagna magica” di Thomas Mann.

Sono queste riflessioni in atto da tempo in molti contesti alpini e europei ma non in Valle d’Aosta dove prevale ancora quella narrazione che è il continuo prolungamento di una visione ideologico-identitaria di cui la storiografia non può essere vittima. Quanto accade nell’ambito del dibattito sul “confine orientale”, che a tratti è fuori controllo e posseduto da derive intollerabili, non è del tutto estraneo anche al “confine occidentale” anche se, per fortuna, con altri toni. Gli storici e i ricercatori seri e degni di questo nome, se non si svincolano da quella logica non potranno mai produrre nulla di nuovo e di veramente degno di rilievo. Come da citazione di Marco Cuaz, tratta dal giornale L’Impartial: «…la Vallée d'Aoste est aussi italienne que peut-être n'importe quelle autre contrée de la péninsule». Una affermazione che fa persino sorridere nella sua ingenuità. Nello stesso frangente, a Massimo D’Azeglio è attribuita la famosa frase “l’Italia è fatta ora bisogna fare gli italiani”. Questa citazione dimostra che su questo terreno, che è quello decisivo per la costruzione di una “narrazione” identitaria del “Pays de la Doire”, un lavoro serio di ricerca è ancora in gran parte da immaginare. Sarà la Prima guerra mondiale a rappresentare concretamente un primo momento sulla via di un’identità nazionale italiana. Tema a cui Marco Cuaz ha dedicato alcune delle sue pagine di sicuro interesse. E veniamo a quegli anni cruciali che sono al centro dell’interesse di Cuaz e in particolare alla breve stagione di una ipotetica annessione alla Francia. Certo, nuovi documenti potranno permettere a ricercatori seri di scrivere finalmente un testo illuminante su questa complessa vicenda. Io credo però che la vera sfida sia ancora altra e che questo non ne sia che un utile tassello. Dal secondo dopoguerra in poi, una parte considerevole della storiografia valdostana ha focalizzato la sua attenzione sulla fase resistenziale. Sui fatti, i protagonisti, gli esiti, fino alla nascita della Regione Autonoma a Statuto Speciale con legge costituzionale del 26 febbraio 1948. Una fase su cui alcuni nodi sono pur tuttavia ancora da sciogliere. L’elemento però di maggiore interesse è proprio quello del rapporto tra la Valle d’Aosta e l’elaborazione politica, culturale e ideale di quel tempo e in particolare nello spazio in cui la Valle d’Aosta evolve. Faccio solo un esempio. Nelle ultime pagine del suo diario “Suisse”, Joseph Bréan, «quelques part, à la frontière, juillet 1945», declama i versi di un’opera di Gonzague de Reynolds. Quante domande apre questa citazione e quante ne apre una certa sua successiva corrispondenza con uno dei “chantres” della nozione di “patrie charnelle”. Quante domande inevase sul rapporto degli intellettuali valdostani con l’helvetismo, il personalismo, e soprattutto le molte facce del federalismo che spazia da quello che vagheggia di un’Europa federata della patrie carnali, etnicamente e razzialmente pure, all’elaborazione di ben altro segno di Altiero Spinelli o ancora di Silvio Trentin. Il tema dell’annessionismo è un tema circoscritto come circoscritta fu la sua breve stagione. Può essere al massimo più chiaramente illuminato. Ma il tema dell’annessionismo, se indagato come uno dei momenti di un rapporto di lungo periodo della Valle d’Aosta con quello spazio politico, culturale, ideale e anche filosofico in cui si inserisce la sua storia moderna e contemporanea potrebbe essere allora e solo allora il primo passo di uno dei più grandi cantieri della storiografia valdostana contemporanea ancorché vi siano, oggi e in futuro le forze per affrontarlo.

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