Montagne dolci 5. Sviluppo sostenibile o decrescita felice?
Montagne dolci 5. Sviluppo sostenibile o decrescita felice?
Ringrazio Luca Mercalli del suo intervento nella rubrica della settimana scorsa, anche perché mi aiuta a chiarire alcune cose su di un problema di cui non parlo molto volentieri: la questione climatica.
Ne parlo poco per una ragione molto semplice: i sentimenti confliggono con la ragione, i sogni con la realpolitik. Mi piacciono i ragazzi che manifestano per il clima, quelli che piantano gli alberi, tutti coloro che si impegnano per il risparmio energetico, praticano la differenziata e il riciclo. Mi rivedo giovane a manifestare per la pace nel mondo, contro la fame, la povertà e lo sfruttamento. Temo però tanto, e mi sento vecchio e cinico, che le “piccole dieci cose per salvare il mondo” non possano salvare un bel niente.
Provo a spiegarmi. Non è il mio terreno di studi, ma da lettore compulsivo mi sono convinto che il problema del riscaldamento climatico sia davvero molto serio. Non sappiamo con certezza se fra dieci, venti o cinquant’anni, ma le conseguenze saranno devastanti per tutti. E sono anche persuaso che il global warming dipende da noi (ce ne sono stati altri, nella storia, ma le cause erano differenti) e in particolare dalle emissioni di ossido di carbonio. La letteratura scientifica sull’argomento lascia pochi margini di dubbio.
Quindi è essenziale ridurre drasticamente il consumo di combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) che oggi provvedono all’85% del fabbisogno energetico mondiale e sostituirlo con il risparmio e le energie rinnovabili (solare, eolica geotermica, marina, idroelettrica).
Fin qui tutti d’accordo, o quasi. Il problema è che allo stato attuale della tecnologia i buoni decaloghi degli ecologisti e gli incentivi dei governi virtuosi non bastano. Per quanto ci sforziamo di fare correttamente la differenziata, risparmiare l’acqua del rubinetto o prendere l’auto il meno possibile, è come svuotare l’oceano con un bicchiere. Serve a noi benestanti, nati dalla parte fortunata del mondo, a dare il buon esempio e a metterci la coscienza a posto (dopo almeno due secoli in cui abbiamo devastato la natura e rapinato il resto del mondo), ma i giganti dell’inquinamento oggi sono altrove.
Di fronte alla scarsità dei risultati la galassia ecologista si frantuma. Semplificando molto, potremmo dire che ci sono da una parte i moderati della “green economy”, dall’altra i radicali della “decrescita felice”.
I primi sono alla ricerca uno sviluppo economico sostenibile, ovvero di una crescita economica fondata sull’innovazione tecnologica, l’automazione, il digitale, l’intelligenza artificiale. Una crescita fondata la scienza, la conoscenza e la formazione. Che incoraggi in tutti i modi l’innovazione nell’industria, nella produzione energetica, nell’agricoltura, nei trasporti, nei servizi. Con l’obiettivo di rendere l’ecologico competitivo: produrre auto elettriche che costino meno del diesel, pannelli solari realmente convenienti, risparmiare energia, riciclare materiali, ridurre rifiuti (la cosiddetta “economia circolare”). Non tagliare un albero senza piantarne un altro. L’obiettivo è produrre riducendo il più possibile il consumo di risorse naturali. Insomma accrescere il PIN senza distruggere la natura. Il bastone e la carota: tassare chi inquina e incentivare chi rispetta l’ambiente. Un “Green New Deal” impostato nei protocolli di Kyoto, monitorato dalle Conferenze sul clima, fatto proprio tra gli altri dall’amministrazione Obama e oggi al centro di molti progetti dell’Unione europea.
I sostenitori della decrescita felice ritengono però, anche con solide argomentazioni, che tutto questo va bene, ma non basta. Che la situazione è talmente grave che bisogna fare molto di più. Bisogna ridurre i consumi, modificare i nostri stili di vita. Non possiamo espanderci all’infinito in una terra dalle risorse finite. O governiamo la decrescita o questa avverrà comunque in modo traumatico. Bisogna quindi incominciare a rinunciare al superfluo, vivere a zero emissioni, ridurre il PIL. Il più in fretta possibile perché non c’è più tempo.
Probabilmente sarebbe la soluzione, se non fosse che almeno sette miliardi di uomini (e non solo quelli nati nella parte sfortunata del mondo) non hanno il problema di ridurre i consumi. Come pensano i sostenitori della decrescita felice di persuadere un miliardo e passa di cinesi, gli indiani, gli africani, gli ispano-americani che sognano soltanto di arrivare in “Occidente” o di vivere all’americana, a rinunciare al superfluo, a ridurre il PIL? Abbiamo visto la corsa ai consumi dei nostri vicini dell’est dopo cinquant’anni di comunismo. Come pensano di convincere un indiano che il risciò è più ecologico dell’automobile? Cosa offrono in cambio a un brasiliano per non tagliare gli alberi dell’Amazzonia, dopo che noi abbiamo devastato le nostre foreste?
Mi sembra che proporre la decrescita felice sia come predicare la pace nel mondo, l’amore per il prossimo o l’uguaglianza universale. Un libro dei sogni che ignora la natura umana. Abbiamo visto nella storia alcuni episodi di decrescita felice, dai francescani agli amish, dagli hippies alla new age, ma sono rimasti piccoli gruppi con forti motivazioni religiose o ideologiche. Le altre storie di decrescita non sono finite bene. Quando la torta da spartire si riduce cresce solo l’egoismo, la violenza, la chiusura, i muri, i nazionalismi, i “prima noi”. Altro che rinunciare al superfluo in nome in nome della solidarietà umana.
E poi chi decide che cosa è superfluo? Una volta si diceva scandalizzati: “vivono nella miseria, ma hanno tutti la tv!”. Oggi: “mangiano alla Caritas, ma hanno tutti lo smartphone!”. Per qualcuno saranno superflue le sigarette, per altri le seconde case, per qualcuno il vino, per altri i libri, per qualcuno la musica per altri l’automobile. Da Roberspierre a Stalin, da Savonarola ai Talebani chi ha cercato di definire il superfluo ha provocato solo bagni di sangue.
Caro Luca, temo molto che la decrescita felice finirà nella grande discarica dei bei sogni, insieme a una nobile compagnia, dalla pace nel mondo all’amore universale, dall’esperanto al “make love not war”, a cui una volta avevo creduto anch’io. Forse riuscirai a convincere qualcuno dalle nostre parti a decrescere almeno un po’ felicemente, ma temo molto che per i più la decrescita ci sarà, eccome, anzi credo sia già cominciata, ma non sarà affatto felice.
L’unica speranza, secondo me, è che ci salvi la tecnologia, l’innovazione che riesca a coniugare crescita economica e sostenibilità ambientale. E non è questione di fede, ma di investimenti, di idee, di progetti. Già nel nostro piccolo angolo di montagna qualcosa c’è in cantiere.