Perché lassù? 7. Agli alpinisti valdostani

Perché lassù? 7.   Agli alpinisti valdostani
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Perché lassù? 7. Agli alpinisti valdostani

La rappresentazione degli alpinisti come eroi è un’idea ben poco sana …. Le montagne hanno un contenuto salvifico. Non la corsa sulle montagne per superare il proprio limite, non l’arrampicata estrema, bensì l’andare a piedi nutrendosi della nostra curiosità, ben al di sotto del limite delle nostre prestazioni.”

Chi l’ha scritto? Non qualche prete-alpinista dell’Ottocento. Nemmeno quell’abbé Bionaz, curato di Saint-Nicolas, autore nel 1921 sul “Bulletin de la société de la flore valdôtaine”, di un delizioso articolo dal titolo programmatico: “L’alpinismo à l’eau de rose”. La proposta di un alpinismo “sans trop de peines, sans de dangers, de frayeurs sur des sommités pas trop inabordables” , “où l’exercise de la grimpade est une delice plutôt qu’une fatigue”. Un alpinismo per tutta la famiglia che doveva ritemprare il corpo e soprattutto lo spirito, avvicinando l’uomo a Dio e allontanandolo dalle tentazioni terrene. Nemmeno qualche moderno sostenitore del “turismo dolce”, un collaboratore del CIPRA o di Sweet Mountains.

No. Lo dice Reinhold Messner, nel suo ultimo appello, Salviamo le montagne (Corbaccio 2020). Certo, gli anni passano per tutti o, come direbbe Rocco Schiavone, “l’annite è una brutta malattia e non fa prigionieri”. Ogni età ha i sui sogni ed è giusto.

Ognuno, sia chiaro, è libero di praticare l’alpinismo che vuole (e soprattutto che può). Nessuna censura, nessun divieto. Basta non mettere in pericolo gli altri. A Simone Moro auguro portare i suoi sogni il più in alto possibile. Tamara Lunger l’ammirerò per tutta la vita. Cala Cimenti, forte e simpatico, ci ricorderà sempre che la montagna può assassinare anche dietro casa, magari dopo esserti “sdraiato in cima al mondo”.

La questione è un’altra. Dove portare i nostri figli, i nostri nipotini, i nostri allievi (sapendo bene che poi, appena più grandi, faranno di testa loro)? Quale idea di montagna suggerire agli amici, ai turisti, ai nostri più pochi lettori? Quale alpinismo dovrebbero proporre, agevolare, finanziare, le istituzioni politiche, le associazioni sportive, ricreative, culturali?

Lo chiedo a chi davvero si intende di montagna (io leggo, voi fate). Arturo Squinobal, Marco Barmasse, Abele Blanc (provo seguire l’unico ordine ragionevole, anche se un po’ démodé: il rispetto dell’età), Marco Camandona, Hervé Barmasse, Emrik Favre, François Cazzanelli …. (mi perdoneranno mai gli altri? non posso riempire la rubrica di nomi!). Lo chiedo alle guide alpine, ai rifugisti, agli esperti del soccorso alpino, al Cai (peccato non ci sia più in Valle una sezione della “Giovane Montagna”). Lo chiedo a chi alle montagne ha dedicato la sua vita.

Perché andare lassù? Una volta i Salesiani le gite scolastiche le facevano in montagna, ed era scuola vera. Oggi se proponi una gita scolastica in un rifugio ti guardano come un matto. Niente fast food, niente discoteche, forse neppure la connessione! Meglio fingere interesse per musei e monumenti di qualche città.

E soprattutto quale montagna proporre? L’arrampicata sportiva sui sassi a trenta metri dal posteggio? Le cascate di ghiaccio? Le alte vie a passo di corsa? Lo Skyway del Monte Bianco? Tre giorni in un rifugio senza internet? L’alpinisme à l’eau de rose o la scarica di adrenalina? “Maestra di vita” o “sfida alla morte”?

Ripeto, libertà per tutti. Nessun divieto e nessuna imposizione. Ognuno vada in montagna come vuole e come può. Ma dove indirizzare i soldi pubblici, le politiche scolastiche, le iniziative sportive e culturali che orientano, se non proprio determinano, l’approccio collettivo alla montagna?

L’abbé Gorret, centocinquant’anni fa, proponeva che la scuola insegnasse ai giovani a viaggiare, un’idea geniale che si è completamente perduta. Fra Otto e Novecento tante associazioni escursionistiche, alcune cattoliche, altre nazionaliste, alcune militariste, altre goliardiche, raccoglievano e indirizzavano verso i monti il tempo libero giovanile, prima che il fascismo lo inquadrasse nelle organizzazioni dei Balilla e del Dopolavoro. Il resto lo fecero l’Azione Cattolica e gli oratori. Poi, nel dopoguerra, tutto finì. Un po’ per sacrosanta reazione all’irreggimentazione del tempo libero durante il Ventennio. Un po’ perché lo sci da discesa occupò prepotentemente l’immaginario e l’uso della montagna, seducendo assai più delle faticose camminate (e rendendo economicamente molto di più). Molto perché cinema e televisione, poi smartphone e social network, hanno finito con l’occupare il 99% del tempo libero.

Però fa infinita tristezza vedere tanti ragazzi sdraiati su un divano, con un cellulare incollato alle mani e i pollici volanti su di una micro tastiera. Che poi magari improvvisano escursioni pericolose senza aver mai appreso i fondamenti dell’andar per monti.

Non so se il mondo alpinistico, l’associazionismo sportivo, la scuola, le istituzioni pubbliche possono far qualcosa per guidare un avvicinamento responsabile alla montagna (e non solo “dei giovani”, anzi, il problema sarà sempre più quello del tempo libero degli anziani e a maggior ragione ci servirà un piano per una “montagna dolce”).

Spero che i più esperti ci facciano capire qualcosa di più sul presente e il futuro dell’alpinismo. Intanto io scenderò di quota, verso una montagna che conosco meglio. Non quella che ci fa sognare, ma quella che ci fa vivere. Le montagne antropizzate, dove negli ultimi tempi abbiamo vissuto affidandoci troppo alla sola neve, dove dobbiamo incominciare seriamente a pensare a delle alternative allo sci. Pensando a una conseguenza del riscaldamento globale: forse i duemila ridiventeranno abitabili tutto l’anno. Forse molta gente dovrà fuggire dalle sempre più torride estati nelle città e salire di quota. Forse, come dice Mercalli nel suo ultimo libro, dovremo salire in montagna per sfuggire al caldo.

Una ragione in più per trattarla bene.

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