Perché lassù? 4. Maestra di vita?

Perché lassù? 4. Maestra di vita?
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Perché lassù? 4. Maestra di vita?

Per me l’alpinismo è un’altra cosa”, scrive Marco Confortola poco dopo aver incontrato Nirmal Purja, sul Gasherbrum II, nell’estate del 2019. “L’alpinista nepalese stava facendo tutti gli Ottomila in velocità. Un giorno ce lo siamo ritrovati al campo 3, insieme ai suoi sherpa e al resto dello staff. Tutti molti gentili, molto disponibili. Finché, quando è arrivato il momento di muoversi verso la vetta, lui e i suoi hanno aperto l’ossigeno e pronti via, sono spariti sotto i nostri occhi”. Niente di male: “non c’è nulla che gli rimproveri e non ho mezzo dubbio che abbia portato a compimento una grande impresa. Solo che ha poco a che fare con il mio modo di vedere la montagna”. L’alpinismo di Purja è un “gesto atletico”, una “prova di forza”. Per me invece, prosegue Confortola in un libro scorrevole e genuino, a fronte di un titolo forse un po’ pedante, Le lezioni della montagna: i segreti per raggiungere la vetta nella vita di tutti i giorni (Sperling e Kupfer 2021), l’alpinismo “è l’avvicinarsi alla montagna, guardarla mentre si fa via via più grande, entrarci in rapporto, viverla”; è faticare, attendere, costruirsi la propria via al successo. “Salire in montagna è una metafora perfetta dell’esistenza. Delle difficoltà delle rinunce e dei sacrifici che comporta. Delle strategie, della forza d’animo e della passione che richiede. E della soddisfazione che regala dopo una grande fatica”.

Confortola è una guida alpina e un tecnico dell’elisoccorso, e se ne vanta; è l’immagine di un alpinismo dal volto umano. Per lui “rifugisti, malgari e guide” sono prima di tutto “i custodi della montagna”, sono quelli che “la vivono, la conoscono, la coccolano e si spaccano la schiena per tutelarla”. La guida “non carica a testa bassa per raggiungere a ogni costo l’obiettivo”. Ricorda sempre al cliente che la meta non è la vetta (soltanto la fine del primo tempo), ma tornare a casa. Deve essere un leader rispettato per le sue conoscenze, che sa comprendere le esigenze del cliente, ma anche imporsi per mettere la sicurezza al primo posto. Non deve temere la paura. Anzi, la montagna insegna che “se la alleni, se la gestisci, la paura diventa il tuo miglior alleato, ciò che ti permette di portare a casa la vita sempre e comunque”. La rinuncia non è sinonimo di insuccesso, ma un atto di coraggio: “rinuncio per aver la possibilità di tornare, di provarci di nuovo”. La guida è il custode delle regole, dei divieti (“non si va slegati sui ghiacciai!”), il dispensatore di saggi consigli che “non sono invenzioni del Confortola di turno”, ma la saggezza dei nostri nonni, l’esperienza di generazioni di alpinisti. “Chi se ne frega, fa il fenomeno. E muore”.

Sembra di leggere le massime di antica saggezza dell’abbé Henry, o dei nostri preti alpinisti dell’Ottocento, scritti però da uno che di Ottomila ne ha già fatti undici (dopo aver perso per congelamento sul K2 tutte le dita dei piedi), e solo le restrizioni covid ne hanno per il momento frenato gli ultimi tre (al momento in cui scriviamo è all’attacco del Gashenbrum I).

Perché Confortola è anche un “cacciatore di 8000”, come racconta nel suo precedente libro, Il cacciatore di 8000. La mia sfida alle montagne più alte del mondo (Hoepli 2018). E qui, sin dall’inquietante immagine di copertina, sembra affacciarsi un Mr Hyde. Un feroce guerriero più che un angelo del soccorso alpino. Certo, molto lontano dal Gurkha delle forze speciali britanniche, anzi un racconto molto umano anche su aspetti che normalmente sono trascurati dalla letteratura alpinistica: le lunghe marce di avvicinamento, la vita quotidiana al campo base, il problema delle docce e dei gabinetti o dei bisogni corporali nei bivacchi notturni d’alta quota. La noia e i litigi dei lunghissimi tempi morti dell’acclimatamento e del maltempo, il ruolo dei cuochi, le amicizie e le inimicizie di un’elite alpinistica mondiale che continua a ritrovarsi nei campi base degli Ottomila. Ma anche i grandi gesti di solidarietà, le imprese estreme per salvare un compagno o uno sherpa che vaga sperduto nella “zona della morte”. Soprattutto c’è il racconto di una determinazione estrema: tornare a scalare dopo aver perso tutte le dita dei piedi; porsi sempre sfide nuove, spostare i confini dell’impossibile. Forse è l’incarnazione dei due volti dell’alpinismo, pendolo oscillante fra maestro di vita e gioco con la morte. O forse è la necessità di conformarsi a un narrazione i cui canoni sono stati ridefiniti un centinaio di anni fa.

… (continua)

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