Perché lassù? 3. C’era una volta ...

Perché lassù? 3. C’era una volta ...
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Perché lassù? 3. C’era una volta ...

Un tempo, e parliamo delle origini dell’alpinismo (per me c’è “l’irresistibile attrazione della storia”), era impensabile andare in montagna senza fare esperimenti scientifici. “Le but de notre Club c’est l’étude, c’est la science sous ses divers aspects”, affermava il più geniale fra i valdostani dell’Ottocento, l’abbé Gorret, al Congresso del CAI il 29 agosto 1869.

Come per Quintino Sella (su cui il recente gran libro di Pietro Crivellaro) e per gli alpinisti-scienziati dell’Alpine Club londinese, si poteva andare in montagna, persino correre qualche “rischio calcolato”, ma solo per una nobile causa: per la Scienza, per Dio o per la Patria. In cima si doveva portare un barometro, una croce o una bandiera. Salire solo per ridiscendere pareva una follia. Solo una ragione superiore poteva giustificare rischio e sofferenza.

“Sint rupes virtutis iter”, era il motto dell’alpinismo cattolico per il quale andare in montagna era un percorso di virtù, una rigenerazione spirituale, come nell’immagine del Purgatorio dantesco. Significava allontanare gli uomini dalle tentazioni della città. Sempre anteponendo il valore della vita al raggiungimento della vetta. “Mieux vaut manquer cent fois l’ascension d’une montagne que de perdre une seule fois la vie”, raccomandava l’abbé Henry, ricordando che la vita è un dono divino “così grande da non doverlo sacrificare bestialmente contro un pezzo di pietra o di ghiaccio senza utilità per nessuno”.

“L’amore per le ascensioni alpine può dirsi nato in Italia insieme alla sua indipendenza. L’alpinista ha la nascita del soldato dell’Italia unita. Ci siamo innamorati delle nostre Alpi quando le abbiamo viste libere, vi abbiamo riconosciuto le guardiane della patria, abbiamo giurato di sapere morire per difenderle”, scriveva Paolo Lioy, naturalista vicentino, commemorando la morte di Quintino Sella. “Sulle altezze sublimi delle Alpi porteremo il tricolore italiano”, aggiungeva per l’occasione Andrea Frassati. L’alpinismo era “il primo degli sport”, lo strumento più adatto a “rinvigorire la razza” degli italiani e “renderla più adatta all’uso delle armi”, assicurava il fisiologo piemontese Angelo Mosso, studioso degli effetti della montagna sull’uomo.

Non tutti in verità la pensavano a questo modo. Forse le prime incomprensioni incominciarono nell’agosto del 1822, quando un atletico ragazzotto inglese, Frederick Clissold, piombò a Chamonix per salire sul Bianco. Saputolo, il vecchio Paccard corse ad offrirgli i suoi strumenti scientifici, ma Clissold rispose che non voleva fare alcuna misurazione, solo arrivare in vetta nel minor tempo possibile. Il vecchio conquistatore del Bianco “si fece da parte”, “triste e stupefatto”. Clissold concluse l’andata e ritorno alla cima in 45 ore, molto arrabbiato con le guide che lo avevano rallentato, perché il suo obiettivo era andata e ritorno in giornata.

Un matto, pensò la maggior parte dei suoi contemporanei. Qualche anno dopo, però, un giovane geologo di origine canadese, John Richardson Auldjo, salito sulla cima del Bianco il 9 agosto 1827, si vantò di aver fatto un unico esperimento scientifico: la scoperta che la rarefazione dell’aria rendeva il sapore del tabacco della pipa estremamente sgradevole, tanto da obbligarlo a spegnerla. Nel 1830 il colonnello dell’esercito inglese Edward Bootle Wibraham disse che voleva scalare il Monte Bianco solo perché gli era stato raccomandato di non farlo. Nel 1834 il conte Henry de Tilly vi andò per uscire dalla depressione provocatagli da una delusione d’amore. Nel 1837 la contessa Henriette d’Angeville scalò il Bianco vestita da uomo per dimostrare di valere quanto Georges Sand.

Era nato l’alpinismo sportivo. Lo praticavano soprattutto gli inglesi che teorizzavano un alpinismo come gioco, superamento di sfide attraverso regole codificate e mezzi leali (ci avrebbero pensato politici e scienziati a usarli per dimostrare la superiorità fisica e morale degli anglosassoni e il loro diritto all’Impero). Uno sport, quindi, che, come tutti gli sport, aveva un ruolo importante di disciplinamento sociale: sublimare le pulsioni violente dell’animo umano dirigendo gli istinti verso la leale competizione. Una funzione sociale così importante da diventare uno dei fulcri dell’educazione inglese, esportata in tutto il mondo.

Era tuttavia ancora un alpinismo prudente, capace di rinunciare di fronte al rischio eccessivo. Una pratica sportiva che, pur allontanandosi dalle motivazioni scientifiche e religiose delle origini (un po’ meno da quelle patriottiche) rimaneva un alpinismo colto, fondato sul binomio guida-cliente, fatto di lunghe marce di avvicinamento, di “mezzi leali”. Un alpinismo ancora interno all’idea che la montagna fosse “maestra di vita”. Eppure un’idea che faticò ad imporsi, come mostrano le polemiche seguite alla tragedia del Cervino del 1865.

Come si è passati dalla “montagna educatrice”, “laboratorio della natura”, “avvicinamento a Dio”, all’ “alpinismo eroico”, “trionfo delle estreme audacie”, “supremo sport dell’ardimento”, “palestra di eroismo patriottico”? Come e quando è accaduto che l’alpinismo diventasse “un’arma contro la democrazia livellatrice”, strumento per “forgiare il superuomo” e “migliorare la qualità della razza”? Oggi, nell’immaginario collettivo, sembra prevalere un’immagine superomista: i “conquistatori dell’inutile”, “l’ultima sfida”, “i drogati dell’adrenalina”, l’oscar ad Honnold e al suo Free solo su El Capitan. Qualcosa che assomiglia più alla “seduzione della guerra” che alla montagna educatrice dei nostri nonni.

Colpa solo del “gran circo mediatico” che porta denaro, onore e gloria, ma chiede rischio, spettacolo e sangue? In realtà qualcosa era accaduto già un centinaio di anni fa. Ma prima di continuare la nostra storia (e in questa puntata ce n’è già troppa) vorrei capire se c’è ancora qualcuno nel mondo alpinistico di oggi (parlo naturalmente dei professionisti, non di noi umani escursionisti della domenica), che ritiene la montagna una “maestra di vita” piuttosto che il luogo dove “cercar la bella morte”.

Parrebbe di sì, ma con qualche compromesso …

(continua)

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