Perché lassù? 1. “L’irresistibile richiamo della montagna”

Perché lassù? 1. “L’irresistibile richiamo della montagna”
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Marco Cuaz, storico, ha insegnato per diversi anni nelle scuole superiori del Piemonte, all’Università di Torino e della Valle d’Aosta. Tra i suoi libri Alle frontiere dello Stato. La scuola elementare in Valle d’Aosta dalla restaurazione al fascismo, Milano Angeli 1988; Le nuove di Francia. L’immagine della rivoluzione francese nella stampa periodica italiana, Torino Meynier 1990; Valle d'Aosta. Storia di un'immagine, Bari Laterza, 1994; Alle radici di un’identità. Studi di storia valdostana, Aosta Le Château 1996; Le Alpi, Bologna il Mulino 2005; I rumori del mondo. Saggi sulla storia dell’alpinismo e l’uso pubblico delle montagne, Aosta Le Château 2011.

Perché lassù? 1. “L’irresistibile richiamo della montagna”Non sono mai stato un alpinista. Nemmeno quando il fiato non mi tradiva al terzo piano di scale. Mi è sempre piaciuta la montagna guardata da sotto, come il suo primo cantore, Jean-Jacques Rousseau: boschi, pascoli, panorami, sentieri in quota, marce di avvicinamento (poi, arrivato vicino, basta). Anche i ghiacciai, con i loro suoni inquietanti, ma come il mare in tempesta, osservato dalla costa.

Sono vissuto circondato da alpinisti. Mio padre a ottant’anni faceva ancora la Tersiva. Studiando la storia del mondo alpino ne ho conosciuti tanti e per me sono sempre stati dei supereroi. Fanno cose come dondolare su di un abisso affidando la propria vita a un chiodo, dormire in un’amaca in parete “sotto il vuoto e sopra le stelle”, camminare su creste sottili con venti a 100 km all’ora, passare sotto cornici di neve sperando che aspettino ancora un attimo a cadere, tutte cose che noi umani possiamo solo vagamente immaginare.

Credo però di condividere con quasi tutti gli altri umani una domanda tanto antica quanto la storia dell’alpinismo stesso: “ma perché?”. Una domanda che ritorna costantemente, soprattutto dopo gli incidenti e oggi riproposta con forza di fronte all’ultima sfida dell’alpinismo contemporaneo: gli ottomila d’inverno. Perché andare sull’“Orco”, sulla “divoratrice di uomini”, il Nanga Parbat, d’inverno, per la via più difficile, che grandi esperti ti dicono “impossibile”, lo sperone Mummery, quando hai un figlio di tre anni, la salute e tutta una vita davanti a te?

Lo è stato chiesto a quindici grandi alpinisti (tra cui due valdostani) che raccontano “l’irresistibile richiamo della montagna”. Perché lassù (Mondadori 2021) è un’interessante antologia, curata dal “ragno di Lecco” Serafino Ripamonti, che aggiorna la classica antologia di Armando Biancardi, Il perché dell’alpinismo, del 1994. Da allora l’alpinismo è cambiato. E anche gli storici. Che rinunciano a dannarsi sulle motivazioni individuali. Quelle appartengono a una sfera insondabile della coscienza. Un po’ come la fede religiosa, o l’amore, qualcosa che “intender non la può chi non la prova”, avrebbe detto Dante. Inutile domandare all’alpinista o discuterne con lui: alla fine ti dirà, come Mallory davanti all’Everest, “perché è lì”. Al massimo, come nelle testimonianze del libro, ci parleranno di “attrazione”, “ossessione”, “fuga”, “adrenalina”, “droga”, persino di “sapore del sangue”, come scrive un alpinista grande e difficile come Denis Urubko. Tutti d’accordo che lassù, a ottomila metri, d’inverno, non c’è nulla di bello, solo “l’arte di soffrire”.

Si possono però indagare le ragioni sociali dell’alpinismo. Quelle che fanno sì che un reduce da un ottomila invernale diventi un eroe nazionale e non un candidato al TSO. Quelle che fanno di Ali Sadpara o di Nirmal Purja gli emblemi del riscatto di una nazione. Forse non capiremo mai fino in fondo quale groviglio interiore abbia spinto Whymper ad andare a ogni costo sul Cervino (e poi a non smettere mai, nonostante tutto), ma si può cercare di capire perché l’alpinismo sportivo è nato nell’Inghilterra vittoriana (dove la montagna più alta è un panettone di mille metri). O perché negli anni Ottanta i polacchi si sono gettati sugli ottomila invernali, come cinquant’anni prima i tedeschi si erano immolati sulla nord dell’Eiger o sul Nanga Parbat.

In questa nuova rubrica dell’estate parleremo di montagne, di “vie nuove”, di imprese estreme, ma anche delle montagne di casa, di escursionismo, di sci, del presente e del futuro del turismo alpino davanti ai cambiamenti sociali, tecnologici e climatici. Dopo tanti anni in cui mi sono occupato delle montagne di ieri, vorrei tentare una sfida nuova: la montagna di oggi. Non per arrivare in vetta, naturalmente, ma solo per appostarmi a un campo base.

(continua)

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