LA DISTOPIA COME FORMA LETTERARIA
DI UN DRAMMATICO PRESENTEForse una delle caratteristiche distintive della letteratura del XX secolo è che la distopia ha sostituito l'utopia come luogo privilegiato per pensare la realtà attraverso l'immaginazione. I grandi miti della comunità felice che sembrano fluire nel corso la storia dell'Occidente (da Platone a Thomas More, Tommaso Campanella e Lord Francis Bacon), crollano, nel secolo scorso, nell'immagine spettrale delle infelici rovine della comunità (un'evoluzione che è comunque già registrata nell'archetipo storico di tutte le utopie: il mito platonico di Atlantide). Dalla Metropolis di Fritz Lang (1927) all'Oceania di George Orwell (1948), con una piccola pausa ricreativa ne "Il nuovo mondo" di Aldous Huxley (1931), il futuro del vivere insieme, nelle sue proiezioni artistiche, assume la forma del degrado e della minaccia. Man mano che il presente diventa più perfetto - diventando più sicuro, più pacifico, meno povero per gran parte della popolazione mondiale - la paura atavica dell'umanità nei confronti delle minacce che perseguitano la sua vita quotidiana (malattie, carestie, miseria, guerre, ingiustizie, oppressione) si rivolge al futuro. La distopia, infatti, è essenzialmente discronia: affermazione della superiorità del potere entropico sul potere generativo, una percezione apocalittica del passare del tempo, del corso della storia. Che la vita, in fondo, non sia altro che una corsa alla morte, non solo a livello individuale ma collettivo, è la paura profonda dei grandi autori di fantascienza del secolo scorso, da Aldous Huxley a Philip Dick, da J.G. Ballard al trasversale Cormac McCarthy, che ci ha regalato degli affreschi spaventosi in un domani che si fa strada con la faccia dell'incubo. L'entrata turbolenta nel terzo millennio non ha aiutato le cose. Per non parlare dell'urgenza dei flussi migratori che arriva al suo parossismo nel 2015. Tre grandi crisi globali hanno scosso i primi venti anni del XXI° secolo: la crisi terroristica del 2001, la crisi economica del 2008 e ora la crisi sanitaria innescata dal epidemia di coronavirus COVID-19. Quest'ultimo, a pieno ritmo, anche se la sua durata e le sue conseguenze rimangono imprevedibili, è probabilmente il più grave dei tre, quello che ha il più grande potenziale di trasformazione delle strutture sociali, economiche e culturali dei paesi interessati. Nessuno dubita che emergeremo economicamente in ginocchio, antropologicamente diversi, spogliati di molte delle pigre certezze su cui abbiamo fatto affidamento negli ultimi decenni. Le garanzie di sicurezza collettiva, soprattutto fisica, che hanno avuto un ruolo decisivo nella promozione del consenso sociale per lo Stato di diritto, si rivelano improvvisamente in una situazione di grande precarietà. Se il terrorismo aveva in fondo appena scalfito il senso di invulnerabilità del comune cittadino occidentale, il contagio virale innalza il vulnus al culmine dell'ansia globale. Tutti i mali che fino ad ora erano stranieri, limitati a paesi infelici e lontani - i mali che abbiamo contemplato sullo schermo televisivo, tra sgomento e distrazione, o che abbiamo letto sul giornale con il sottile distacco emotivo che ci protegge tanto dalla frustrazione del già visto quanto dalla sensazione di impotenza -, ora sono intorno noi: sono i muri dietro i quali siamo confinati e che incarnano la violenza piuttosto che proteggerci da essa. Restrizioni inaudite sulla libertà di movimento, segregazione forzata, chiusura della maggior parte delle attività commerciali e degli istituti pubblici, musei, teatri e chiese; rischio individuale di ricovero prolungato e doloroso e, per molti anziani e malati, l'ombra di una morte che improvvisamente diventa, spaventosamente, una possibilità concreta e imminente, come una pena di morte; la probabilità, individuale e collettiva, della catastrofe economica ... Fino a ieri, queste circostanze erano una realtà in Siria, in Sudan, nel Corno d'Africa, in territori lacerati da inesauribili guerre civili, sottosviluppo, dittature implacabili. Tutto ciò oggi è arrivato anche in Europa: la distopia segna la cronaca realistica del nostro tempo, non più un dispositivo "inventivo" dell'immaginazione, ma una lente d'ingrandimento e di osservazione. Come dare una voce letteraria a questa realtà? Come tradurre la cronaca distopica in un'espressione di significato, attraverso la forza della poesia? Per lo scrittore contemporaneo, testimone della vita quotidiana distopica, di una storia assediata dalle minacce apocalittiche delle migrazioni di massa, dalla catastrofe ecologica e ora dalle emergenze sanitarie, non ci sono molte possibilità di una credibile dichiarazione di significato, di espressione di un ordine simbolico che non cada a terra come il castello di carte frutto di un estetica illusoria o dai inclinazioni moralizzanti. Il filo di una narrazione che non riesce a sublimare in una parabola assoluta - arte così difficile, così rara - è impraticabile. Altrettanto impraticabile oggi è il funambolismo giocoso dello sperimentalismo formalista, che prosciuga il reale sovvertendolo e, per proteggerlo dalla profanazione di interesse, rende la verità un giocattolo incomprensibile. La letteratura avanza a tentoni e le nostre menti hanno sete dei rari tentativi che saranno all'altezza di questa immensa sfida.