Gioachino Gobbi, raffinato imprenditore che ha sempre considerato la storia dell’alpinismo come parte della propria storia personale
Sulle vecchie piccozze della Grivel che venivano realizzate a Les Forges di Courmayeur era impresso un simbolo, quello di una lancetta. Significava innanzitutto precisione, ma anche l’importanza del tempo e del suo trascorrere. Questo lo sapeva bene Gioachino Gobbi, nato e cresciuto in un contesto di memoria e di valori della tradizione, scivolato lunedì dalla vita alla morte nella sua cucina di Courmayeur, mancato in casa come avrebbe voluto, poi vegliato circondato dai suoi libri di montagna e - come da suo specifico desiderio - vestito per l’ultimo viaggio con il costume tradizionale che indossava sempre con orgoglio.
Orgoglio di appartenenza era quello di Gioachino Gobbi, non solo alla comunità di Courmayeur, alla Valdigne e alla Valle d’Aosta, quanto quello di essere parte del popolo delle Alpi e delle montagne più in generale, in orizzonti ampi, favoriti dalle conoscenze che avevano a loro volta creato le sue passioni. Come quando raccontava di quel giorno, lui aveva 7 anni, in cui giunse a casa Gobbi per cena l’alpinista francese Maurice Herzog, il vincitore dell’Annapurna e lui gli strinse la mano priva delle dita, amputate dopo i congelamenti. Un modo per capire che la montagna e l’alpinismo non erano cosa facile, come avrebbe appreso ancora più tragicamente quando il 18 marzo del 1970 arrivò la notizia della morte del papà Toni, travolto da una valanga sul Sassopiatto.
Gioachino aveva 24 anni, nato il 24 agosto del 1945 a Courmayeur e si era da pochi mesi laureato in Economia e commercio con una tesi sugli scarponi da sci e da montagna, dopo il Liceo classico frequentato a Torino. Il padre Antonio, avvocato di famiglia padovana, dopo il corso da allievo ufficiale degli Alpini a Bassano del Grappa era arrivato ad Aosta ma le sue abilità nell’alpinismo lo avevano fatto diventare istruttore dell’allora Scuola centrale. Con il Battaglione Duca degli Abruzzi fu sul fronte nel giugno del 1940 e in particolare, insieme a Renato Chabod, al Rifugio Torino in quei giorni di guerra. Conobbe Romilda Bertholier, al Pavillon du Mont-Fréty, di proprietà da una ventina di anni dei genitori di lei, Prosper guida alpina e Serafina Fleur, cuoca del rifugio. Si sposarono il 18 ottobre del 1943, lui 28enne appena diventato portatore, lei 7 anni in meno. Per Gioachino e per la sorella Barbara, nata nel 1949, il Pavillon è quindi un luogo del cuore, tuttavia nel 2011 decisero di donarlo alla Regione perché fosse custodito per sempre come luogo simbolo della storia dell’alpinismo ed intitolato a Romilda e Toni Gobbi.
Una scelta logica per Gioachino che ha sempre considerato proprio la storia dell’alpinismo come parte della propria storia personale. Quando il papà Toni venne smobilitato dal Regio Esercito, intenzionato a rimanere a Courmayeur dove diventò guida nel 1946, aprì nel 1948 il suo negozio nella via centrale del paese e nessuno poteva pensare che quello spazio sarebbe diventato il ritrovo degli alpinisti di tutto il mondo. E’ li che ricevono la posta, discutono di vie e di creste, commentano la qualità dei materiali del tempo e studiano innovazioni. Toni è il padrone di casa, inventore dello sci alpinismo come nuovo modo di avvicinarsi alla montagna, il giovane Gioachino trascorre ore a leggere nella Libreria delle Alpi, annessa al negozio di articoli sportivi, e a discutere con i tanti clienti, alcuni sono delle vere leggende dell’alpinismo mondiale. Così alla morte del padre è naturale il passaggio, malgrado gli studi in Economia, di Gioachino alla guida del negozio, che mantiene la sua fama grazie anche alle costanti attenzioni nei confronti dell’evoluzione dell’attrezzatura, visto il suo impegno nella ricerca delle ultimissime novità. In questo modo, quello intitolato a Toni Gobbi, diventa uno dei negozi di alpinismo più famosi al mondo.
L’innovazione fa parte del carattere di Gioachino che a metà degli anni Settanta è protagonista del rilancio del marchio Fila, che in breve diventa un riferimento internazionale per l'abbigliamento sportivo. Se il Maglificio Fratelli Fila di Biella prima produceva solo intimo, viene introdotta la linea per il tennis, studiata da Adriano Panatta e con Bjorn Borg come famoso testimonial, segue l’alpinismo con l’abbigliamento studiato da Giorgio Bertone, i famosi maglioni con la tasca davanti, le salopette per scalare, indumenti che vestono Reinhold Messner in tutte le ascensioni agli Ottomila.
Poi arriva il momento della grande sfida, peraltro in casa. Nei primi anni Ottanta rileva la Fratelli Grivel di Courmayeur, azienda di antiche tradizioni che dal 1818 fabbrica attrezzature per alpinisti, soprattutto piccozze e, dal 1909, anche ramponi da ghiaccio, con la straordinaria creazione delle punte frontali. Partendo dal valore del nome e della storia, Gioachino Gobbi ricostruisce il complesso aziendale: nuova fabbrica, nuove tecnologie, nuovi prodotti e diffusione sui mercati mondiali, che si stanno modificando. A fianco ha la moglie Elisabetta Frera, Betta, straordinaria compagna, che ne asseconda la personalità e soprattutto gli consente di fare fronte ai numerosi impegni che Gioachino fa crescere anziché diminuire. Diventa assessore comunale a Courmayeur, nel 2008 rileva la fabbrica di bastoncini da sci di Verrayes che la Rossignol vuole chiudere e dove ora è la sede della Grivel diretta dal figlio Oliviero, investe nelle energie rinnovabili, diventa presidente della Courmayeur Mont Blanc Funivie, crea un museo della sua collezione negli spazi della prima fabbrica della Grivel a Courmayeur, tutto secondo una logica di condivisione e di grande attenzione al rapporto con il territorio e le comunità di riferimento. Per Gioachino Gobbi le radici sono fondamentali, l’ultimo ricordo è la recente inaugurazione al Sarriod de La Tour della mostra dedicata a François Cerise, dove si aggira entusiasta tra le sculture che gli ricordano la sua terra di un tempo, sempre proprio a farsi stupire, perché rammenta sempre i meriti di chi ci ha preceduto. Diceva «Noi abbiamo potuto fare tanto perché partivamo dal tanto che ci avevano lasciato. Si usa dire: abbiamo potuto vedere lontano perché siamo saliti sulle spalle di giganti.»
Come quei giganti di pietra che mercoledì scorso, avvolti dalle nuvole, hanno mandato con il vento la neve ad accompagnare Gioachino Gobbi nella chiesa di Courmayeur, dove la moglie Betta ha ricordato quanto ha lasciato a noi tutti, con il suo esempio, la passione, le idee, il rispetto per la memoria e il territorio. Bellissime le parole della poesia di Clare Harner scelte per l’occasione dalla figlia Caterina - «Non restare a piangere sulla mia tomba. Non sono lì, non dormo. Sono mille venti che soffiano. Sono la scintilla diamante sulla neve. Sono la luce del sole sul grano maturo. Sono la pioggerellina d’autunno quando ti svegli nella quiete del mattino. Sono le stelle che brillano la notte. Non restare a piangere sulla mia tomba. Non sono lì, non sono morto» - prima dell’esecuzione commovente di Signore delle cime e Montagnes Valdôtaines.