Parigi, Missak Manouchian e sua moglie Mélinée nel Panthéon Evento che fa riflettere sulla dimensione europea della Resistenza

Parigi, Missak Manouchian e sua moglie Mélinée nel Panthéon Evento che fa riflettere sulla dimensione europea della Resistenza
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Il 21 febbraio all’imbrunire è iniziata la cerimonia con la quale sono entrati al Panthéon Missak Manouchian e sua moglie Mélinée. Un evento di grande importanza che sollecita molte riflessioni anche di grande attualità che vanno ben oltre i confini della Francia. Nel 1964 era entrato al Panthéon Jean Moulin la figura forse più importante della Resistenza francese accompagnato dalla celebre orazione di André Malraux. Nel 2015 erano entrate quattro grandi figure: Germaine Tillon, Geneviève de Gaulle-Anthonioz, Jean Zay e Pierre Brossolette. Nel 2018 Félix ?boué primo governatore nero e primo Resistente della Francia d’oltremare e poi ancora nel 2021 la celebre cantante Joséphine Baker, importante figura della Resistenza e prima donna nera ad essere accolta nel tempio della Repubblica. Con la «panthéonisation» di Missak Manouchian e Mélina Assadourian la Francia compie un ulteriore passo in direzione del riconoscimento della complessità della Resistenza antifascista.

Il 21 febbraio piove forte e tira un forte vento. Nuvole nere solcano il cielo sfiorando appena la guglia del Panthéon. Ho attraversato barriere e mezzi della polizia e infine sono stato fermato all’entrata dei giardini del Lussemburgo. Solo allora mi sono accorto di essere attorniato da alcune centinaia di militanti del PCF che risalivano rue de Médicis come un onda di marea. La polizia li ha invitati con tranquillità, ma anche con fermezza, ad evitare di trasformare un evento così solenne in una rumorosa e colorata manifestazione. I più si sono ritirati senza troppo protestare. Un gruppo ormai fradicio di giovani e meno giovani si è riparato al café Le Rostand. Il caffè preferito da Ismail Kadaré. Siamo un bel gruppo di «rifugiati» bagnati e stanchi. Vicino a me tavoli animati, vengono da Aubervilliers e Saint Denis. In una «ambiance bon enfant» piegano le bandiere delle sezioni e ordinano un demi pression. Piove sempre più forte e ormai è una tempesta. Cala l’oscurità trafitta solo da brevi lampi intermittenti di luce azzurrina. Si beve, si parla, in un clima di attesa. Tutti aspettiamo con pazienza che succeda. All’ora stabilita dal protocollo alcuni si affacciano all’esterno poi, un poco per volta, ci muoviamo tutti. Tutti a cercare uno spiraglio tra la folla. Mi infilo in un piccolo spazio tra una transenna, un albero e un mezzo dei CRS. Siamo solo in quattro e ci teniamo stretti. Aspettiamo ancora. D’un tratto cala un silenzio innaturale. Un gruppo di studenti, sfidando le raffiche di vento, sale da boulevard Saint Michel seguito da un drappello della Legione straniera. Si posizionano all’inizio di rue Soufflot proprio davanti a noi. Solo a quel punto scorgiamo una delle due bare nascoste da un grande cubo bianco. Siamo quasi esattamente nell’asse del Panthéon appena illuminato blu, bianco e rosso. Parlo con i miei vicini. Uno è un vecchio membro del comitato centrale del PCF, l’altra invece è una giovane studentessa di SciencesPo, l’ultima è una signora molto anziana diritta come fosse sull’attenti. Davanti alle bare si alza un canto sommesso… poi, una voce che sembra venire dal nulla scandisce, lentamente, ad uno ad uno, i nomi dei 22 fucilati al Mont-Valérien in quel fatidico 21 febbraio 1944. All’unica donna del gruppo, Olga Bancic, fu riservato il triste privilegio di essere ghigliottinata a Stoccarda il 10 maggio dello stesso anno. Ad ogni nome si sente un brusio che attraversa tutto lo spazio dal Luxembourg al Panthéon… «mort pour la France». La giovane vicino a me lo sussurra appena con le lacrime agli occhi…mort pour la France…mort pour la France. Sembra una preghiera di una profonda, straordinaria intensità. Si percepisce un’enorme emozione. Dopo un breve silenzio i legionari caricano a spalle le due bare coperte dal drapeau tricolore sbattuto dal vento e inizia l’ultimo viaggio di Missak Manouchian e sua moglie Mélinée verso il Panthéon. L’uomo vicino a me riesce col cellulare a sintonizzarsi su France 2. Vediamo e ascoltiamo Patrick Bruel leggere l’ultima lettera scritta da Missak a Mélinée poco prima di morire: «Ma Chère Mélinée, ma petite orpheline bien-aimée…». Poi le parole del presidente Macron. Infine ascoltiamo il bravissimo Arthur Teboul di Feu! Chatterton intonare «L’Affiche Rouge», quella canzone struggente e potentissima che fu musicata e cantata da Léo Ferré sul testo del poeta Louis Aragon: «…Vous n'avez réclamé la gloire ni les larmes. Ni l'orgue ni la prière aux agonisants…». Per una volta non condivido integralmente quanto scrive la storica Annette Wiewiorka quando dice: «…on peut se demander si la légende et le mythe n’ont pas définitivement triomphé de l’histoire». Credo piuttosto che alcune figure assurgano a simbolo. Oggi, attraverso la figura di Missak Manouchian, entrano al Panthéon, non solo tutti i caduti dell’FTP-MOI (Francs-Tiréurs Partisans – Main d’Oeuvre Immigrée) dell’Affiche Rouge, ma tutti i Resistenti apolidi e immigrati che hanno dato la loro vita per la Francia e attraverso di essa per l’Europa. Un gruppo di resistenti prevalentemente costituito di ebrei, ma anche di spagnoli, italiani e armeni sfuggiti al genocidio turco. E’ comprensibile che il presidente Macron e la stampa francese riconducano questo avvenimento, di così forte significato, all’interno di una riflessione sulla storia della Francia, dove la narrazione unanimista dell’epoca gollista e quella nazionalista del PCF hanno a lungo occultato il ruolo degli “stranieri” nella Resistenza. Quelli che Aragon chiamava «français de préférence» in opposizione ai «français de souche». Quelli che ci ricordano ancora oggi che la Francia è stata una grande terra d’asilo. E’ però un peccato che nessuno abbia voluto soffermarsi sulla dimensione europea della Resistenza. Molti oggi hanno dimenticato che nel volume «Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea» di Pirelli e Malvezzi, che venne pubblicato da Einaudi nel 1954 con una prefazione di Thomas Mann, tra le molte lettere c’erano proprio quelle di Missak Manouchian, Celestino Alfonso, Joseph Epstain, Roger Rouxel e altri govani dell’FTP-MOI. In questi giorni segnati anche dalla morte di Alexei Navalny, in questa Europa di oggi che si confronta non solo con la guerra in Ucraina, ma col risorgere dei nazionalismi in un contesto in cui l’ordine della guerra fredda è ormai remoto, queste dovrebbero essere occasioni non tanto e non solo per una riflessione tutta interna ad un contesto nazionale che rischia di essere prevalentemente commemorativo e memoriale. Dovrebbero essere anche occasioni per guardare al nostro futuro, al futuro di un Europa che tutta intera, in questa sua storia deve trovare le ragioni per essere ancora e ancora il luminoso centro dei valori della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità.

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