Generosa ed instancabile: Lubina Dalbard conservava l’orto degli affetti e il legame d’amore per la sua Val Ferret

Generosa ed instancabile: Lubina Dalbard conservava l’orto degli affetti e il legame d’amore per la sua Val Ferret
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Lubina Dalbard ha rappresentato nel suo quasi un secolo di vita l’anello di congiunzione tra la Courmayeur dell’allevamento e dei primi villeggianti e la stazione turistica e sciistica alla moda fin troppo spinta che conosciamo adesso. La sua capacità - dote rara - è stata quella di attraversare da protagonista il tempo senza abbandonare nulla del suo modo di essere, nata in montagna e per la montagna vissuta. Non ricordava la prima volta che vide Courmayeur perché era troppo piccola, nata il 2 di novembre del 1927, in una famiglia di grandi allevatori e montagnards, i Dalbard di Pollein, originari della bassa valle e saliti alle porte di Aosta dopo avere acquistato le proprietà dell’Ordine Mauriziano, la Sacrée réligion come si diceva al tempo. A Pollein i Dalbard avevano incrociato i loro destini con i liguri Celesia, a loro volta acquirenti della cascina di Tharençan, famiglie che hanno costruito la storia dell’economia agricola valdostana nell’Ottocento e nel Novecento.

Lubina era quindi la figlia di Callisto Dalbard e Celestina Celesia, la quarta dopo Attilio, Matilde ed Albino, prima di Silvio e Aldo, l’ultima ancora in vita, con la recente amarezza di avere salutato lo scorso anno - proprio in questi giorni - il novantaduenne fratello Silvio, dopo che a settembre 2021 e giugno del 2020 erano mancati il novantaseienne Albino e il più giovane del gruppo, Aldo, classe 1935. “Si restaie la derie di Dalbard” diceva con gli occhi azzurri velati di tristezza, perché per Lubina la famiglia era il bene più prezioso e la sua si era cementata soprattutto in alpeggio, al Tronchey della Val Ferret, dove i Dalbard da Pollein salivano dopo ore di cammino con oltre cento bestie alle quali si aggiungevano poi quelle dei vaché. Per Lubina bambina all’inizio furono le bisacce del mulo a condurla a Courmayeur, per quella che era una magnifica avventura di cui rammentava tutto con straordinaria lucidità.

Proprio in Val Ferret la svelta e piccola Lubina, sempre a passo di corsa, aveva incrociato Cesarino Berthod del 1926, il figlio di Cesare e Rosalia Branche, conduttori dell’alpeggio vicino e genitori pure di Giuseppe, Lorenzo e Jean. Dalbard e Berthod giocavano insieme in quei pascoli, una squadra di dieci bambini scatenati che però contribuiva ad aiutare i genitori e i domesteucco nei lavori dell’alpe. Fu praticamente un passaggio naturale per i due ragazzi prejé, parlarsi, come si diceva allora, poi fidanzarsi e quindi sposarsi. Era il 1949 e Lubina si trasferì a Courmayeur, nel “quartiere” dei Berthod, sotto il Jardin de l’Ange, dove a gestire tutto era Rosalia, rimasta vedova di Cesare nel 1946.

Qui nacquero nel 1950 e nel 1951 le loro figlie Rosalia, come la nonna e per tutti Lia, e Cesira, entrambe diventate maestre, legatissime tra loro, come legatissime sono sempre state alla mamma Lubina, che ha trasmesso quel sentimento di famiglia che oggi è sempre più raro da trovare. Una famiglia senza dubbio matriarcale, perché anche a Lubina Dalbard è toccata la sorte di perdere per un infarto il quarantasettenne Cesarino, esattamente cinquant’anni fa, nel 1973, quando lei ne aveva quarantasei. Un colpo durissimo, superato grazie alle figlie e a quel sostegno reciproco che è sempre stato un componente fondamentale della vita in montagna.

Una vita in montagna che per Lubina non aveva senso senza il Signore e la devozione, la domenica a Messa, il sabato in estate quando la Val Ferret si riprendeva la scena, la processione a Notre Dame de la Guérison, la visione di un mondo di pascoli e vette in cui la mano di Dio si percepiva in ogni cosa. Proprio la montagna degli alpeggi era il richiamo che ogni anno spingeva Lubina a tornare lassù, a Meyentset nelle case protette dal grande bosco. Appena la neve cominciava a diventare a chiazze Lubina Dalbard era nel pascolo a pulire dai rami che il vento dell’inverno e il soffio delle valanghe avevano portato. In quello che nel tempo è diventato il rifugio della famiglia e dei tanti amici, una casa era ristrutturata, l’altra invece intatta nel passato, come Lubina la voleva per vivere nel suo mondo, salendo e scendendo quegli scalini in pietra sconnessi, quasi un mettersi alla prova per sfidare il tempo, per ritrovare gli antichi assi e le pietre, al loro posto, gli stessi di sempre, calpestati da ragazza. Un sicuro riferimento di memoria, memoria visiva e memoria concreta, con la sua stanza speciale, dove il letto in legno le ricordava le notti ad ascoltare le mucche della vicina stalla che si muovevano, dove la stufa cuoceva praticamente ogni domenica la sua polenta, tanto burro e buona fontina, la polenta di Lubina, il must dei pranzi che radunavano anche settanta persone. E tutti prima di pranzare salivano i gradini per salutare nonna Lubina, presenza carismatica, con i suoi capelli tagliati corti e l’immancabile gonna. Era incredibile come chiunque l’avesse conosciuta nelle visite successive - che fosse a casa o in Val Ferret - con lo sguardo la cercasse e non vedendola le parole erano, a seconda del grado di confidenza, la signora non c'è, la nonna non c'è, Lubina l'è pa, Lubi dove è?

Se la Val Ferret era il luogo che amava più di tutti, conoscendo praticamente a memoria gli avvallamenti, le rocce, i boschi, le radure e, amore tra gli amori, i luoghi segreti dove, dopo il riposino pomeridiano, infaticabile, partiva per raccogliere i mirtilli, è stato però il suo orto a renderla famosa a Courmayeur. Anche in questa sua realizzazione, che rinnovava con entusiasmo dopo ogni inverno, la tradizione era il filo conduttore, con gli splendidi fiori a fare da perimetro alla ponderata scelta di cosa seminare, in funzione delle preferenze delle figlie Lia e Cesira, dei generi Ottavio e Attilio, dei nipoti Cesare, Federica e Valeria ed ora dei piccoli Federico, Filippo e Carolina e dei loro papà Angelo e Pierlorenzo. Probabilmente l’orto più bello della Valle d’Aosta, sicuramente il più fotografato, in pieno centro a Courmayeur.

I suoi fiori erano il benvenuto per chiunque arrivasse nella grande casa di nonna Lubina. A qualsiasi ora le porte erano aperte, un piatto di cibo per tutti, nel pomeriggio il the sempre pronto, le torte buone come poche, in estate Lubina Dalbard si piazzava sul dondolo in giardino, circondata dalle generazioni della sua famiglia e dagli amici, non mancavano mai il gelato e le prelibatezze, una grande donna, che trasmetteva il calore della famiglia. E poi la curiosità, comme va ba lé?, perché Lubina Dalbard non aveva mai perso la sua lingua e parlava il francoprovenzale di Pollein.

Così è stato anche negli ultimi giorni, al suo primo ricovero in assoluto in ospedale. E’ caduta in casa fratturandosi femore e costole, per quaranta giorni tutti abbiamo sperato nel suo recupero, nel ritorno di super Lubina sul dondolo e in Val Ferret. Negli ultimi sogni la mente la riportava lassù, nei luoghi della felicità: arrevon arrevon, fa appresti. Parlava di mucche e di arpians e così sono state le sue ultime parole - allen, leissademe passi -, le parole del devan berdgé che si fa largo nella mandria per raggiungere le prime mucche e condurre tutte al pascolo.

Per tanti anni Lubina sei stata il pastore e te ne sei andata tenendo la mano delle tue figlie, con l’amore a circondarti. E’ successo martedì 21 nella clinica di Saint-Pierre e il giorno dopo sei tornata a casa, vicino al tuo angolo di divano, alla finestra da cui controllavi il mondo, alla vetrata della cucina dove avevi incastrato la fotografia di Cesare, il nipote lontano. Giovedì scorso abbiamo pregato per Lubina Dalbard che ha sempre vissuto al ritmo delle stagioni e che del dare ha fatto l’insegnamento prezioso che ha lasciato a noi tutti.

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