Carlo Gadin, artista del nuovo con la tradizione nell’anima
Il Chiostro di Sant’Orso, ad Aosta, ospita la mostra dello scultore Carlo Gadin dal titolo “Andamenti sinuosi”. L’allestimento, organizzato in collaborazione con il Museo dell’artigianato valdostano di tradizione, sarà visitabile, a ingresso gratuito, fino a domenica 27 novembre, dalle 14 alle 18. Nel seguente articolo, un’appassionata descrizione del mondo dell’artista.
Venivo quassù, negli anni, per ritemprarmi lo spirito. Mi ricordo bene della volta in cui ci venni ed era fine estate, la gente iniziava già a disertare il colle. Ero salito fin lì a cercare qualche barba di larice, utile rimedio per la stagione fredda a venire. Scendendo verso Vens ammirai, come tante altre volte, quell’antichissimo borgo che i Salassi avevano dedicato al dio celtico Vintius, protettore dei viandanti, dei mercanti e dei pellegrini. In mezzo alle altre case individuai presto quella della zia Beatrice, così accogliente e dove era sempre bello fermarsi un momento a parlare con lei, donna così saggia, e intrattenermi con le sue figlie Pauline e Thérèse (sorelle di Carlo) e con sua cognata Bernadette, la mitica maestra del villaggio. Quasi tutte le volte che passai in quella casa così ospitale, il nostro artista non c’era quasi mai. Sempre preso dalla sua arte era spesso in giro a cercare legni adatti per scolpire o a consegnare i suoi capolavori. All’inizio erano soprattutto maschere molto originali, ricavate dalla corteccia degli alberi, a volte con la barba dei larici ad incorniciarne il volto. Più tardi dalle sue mani uscivano vere opere d’arte. Quella volta arrivando a Vens incontrai Igino Bergamini, un turista romano che lì ha la casa. Parlammo un po’ del più e del meno e poi, indicando la Grivola gli dissi: «E’ proprio una montagna magnifica!»
«Certo - mi rispose - pensa che un giorno scrissi a Rigoni Stern per chiedergli se avesse ancora una copia di un suo libro introvabile. Mi rispose puntualmente e sapendo che ero a Vens mi chiese di salutargli la Grivola!» Come se fosse una gran signora. In effetti, secondo l’Abbé Henry, il nome di questa montagna significa “bella ragazza”, qualcosa di armonioso, elegante... e di grandioso.
Tutti i giorni Carlo ha avuto davanti al suo sguardo questo scenario straordinario. E’ qualcosa che lascia delle tracce permanenti nel profondo, che poi riaffiorano quando meno ci si aspetta ispirando, a chiunque sia sensibile come lui e abbia un talento innato, forme nuove, particolari, vive!
Sono convinto che quei numerosi artisti che a Vens sono nati ed hanno operato, ne abbiano ricevuto un sigillo indelebile, un tocco magico che non li ha più abbandonati. Ed è così che sono nati motivi, forme, rappresentazioni della vita e dei costumi locali e una vena artistica che ha forgiato il carattere stesso di questi montanari.
E’ vero che molti di loro rappresentano la realtà in modo «un po’ troppo fotografico», come mi diceva un giorno Guido Diémoz, grande artista di Doues, un po’ scontento del proprio modo di scolpire. Io gli rispondevo: la fotografia riproduce la realtà in modo perfetto, ma su una superficie piatta. Può essere un’immagine molto bella, ma non sarà mai come una tua scultura che fa uscire le forme dal legno, in tre dimensioni. Un uomo, una donna, un bimbo sono come nella vita reale: li puoi vedere di fronte, di lato, di dietro e questo nessuna macchina fotografica potrà mai realizzarlo, anche in mano a un bravissimo fotografo! E tu ci riesci, eccome, e così gli altri scultori. Per di più queste scene di lavoro quotidiano hanno una grande valenza storico-didattica e direi anche terapeutica. Guardando il montanaro all’opera nella comunità di villaggio come tu ce lo mostri, si ha un effetto tranquillizzante. Si capisce che quell’uomo si realizza nel lavoro fatto insieme agli altri ed è così che la vita segue il suo corso, come ci si attende, e questo dà sicurezza anche a chi rivive queste scene. E aggiungevo che in fondo l’arte mette in evidenza quel che l’artista sente dentro di sé e sa realizzare poi con il materiale disponibile piegandolo alla sua forza creativa. Quella di Carlo è grande e proprio tutta sua e si può ammirare nella bella mostra che la Regione gli ha dedicato, in collaborazione con l’IVAT (Museo dell’Artigianato) in una sala del Chostro di sant’Orso, aperta fino al 27 novembre. Le opere esposte sono una ottantina e hanno in buona parte una caratteristica comune: sono fuori dal tempo e dallo spazio, nel senso che Carlo per realizzarle non si è lasciato condizionare da queste due variabili che così spesso limitano la nostra vita quotidiana. Il tempo che conosciamo come passato (ma mai del tutto ) e come presente nello scorrere delle ore e dei giorni così fugaci che nessuno al mondo ha mai potuto trattenerli, neppure per un minuto, eccetto a tratti nelle foto. In quanto allo spazio, sappiamo bene dove inizia ma non dove finisce giacché è infinito, come si dice!
E quindi conviene andar oltre, cercare se possibile nuove forme non legate al tempo né soggette allo spazio. Qualcosa di veramente nuovo, che se ricorda il passato non ne viene intrappolato e se soggiace in parte allo spazio, per necessità, non ne è schiavo. Carlo ci ha provato e in buona parte riuscendovi e anche per questo a volte non è stato capito…
Gli esempi possono essere tanti. Mi ricordo, ad esempio, la scultura del pastore di cui Carlo in modo magistrale ci presenta solo l’involucro, il mantello e basta: il corpo non c’è più e men che meno l’anima... Metafora forte del nostro tempo che strapazza il corpo e dimentica sempre di più l’anima e lo spirito, e dove, come sostiene la psicanalista Catherine Ternynck, l’uomo occidentale si sta silenziosamente sfaldando.
Nella mostra allestita in suo onore si possono trovare vari altri aspetti della sua arte nuova come quel crocifisso che non ha più il legno della croce che lo trattenga. Il Cristo si libra in alto, come se fosse un atleta che si espande nell’Infinito, al di là del tempo e dello spazio, appunto. Ed è proprio questa la vera realtà del Cristo: quella di aver vinto la morte liberandosi - e liberandoci - dal peso delle cose! Oltrepassando i limiti di spazio e tempo.
Interminabili spazi… sovrumani silenzi e profondissima quiete… e mi sovvien l’eterno…
Ed è poi da notare quel pendolo, immoto, che si vede entrando in una delle salette della mostra. Senza dubbio è un richiamo a quello creato un tempo dal prozio François-Valentin Armand, artista di nascita e contadino per necessità. Quel pendolo lo vedevo tutte le volte che andavo a trovare la zia a Vens - e ne ero incantato perché oltre alle ore, segnava anche le fasi della luna e non so più cos’altro ancora. Ma quello di Carlo è irrimediabilmente fermo. E’ come un monito severo: siamo arrivati al limite, bisogna fermarci finché siamo ancora in tempo!