Bruno Fegatelli, vulcanico imprenditore con la passione per le moto nel sangue che ha reso famoso il Jambon de Bosses
Quella di Bruno Fegatelli è una storia appassionante, fatta di incroci e di unioni che sembrano programmate da una regia occulta. Così nell’arco di cento anni è stato assemblato in un modo solo all’apparenza casuale tutto quello che spiega le sue tante e particolari passioni, dalla buona - anzi dall’ottima - cucina, alla conoscenza approfondita di ogni ingrediente e della storia legata agli alimenti, con una predilezione per i prosciutti e la salumeria, la stessa predilezione che fece scattare in lui l’interesse immediato - praticamente istintivo - per il Jambon de Bosses.
«Come dimenticare quel giorno. La rivista “Civiltà del bere” pubblicò un articolo in cui lessi di questo “jambon”. Aveva appena ottenuto la Dop e io non ne sapevo nulla. Quindi non persi tempo, seguendo il mio carattere uscì di casa, presi la Vespa e da Saint-Vincent mi diressi a Bosses per cercare questi prosciutti. Non trovai nulla, anzi nessuno sapeva niente. Ma la fortuna volle farmi incontrare Ivo Collé e lui, forse perché mi vide così entusiasta, arrivato in Vespa per capire qualcosa di questo “jambon”, mi accompagnò a casa di Anselmo Margueret e lì assaggiai il prosciutto che lui stagionava, straordinario, una marcia in più. Così ne acquistai un pezzo e lo portai a mio papà Emanuele, anche lui ne fu entusiasta e pochi giorni dopo dal nostro ristorante passò Guido Franchi del noto salumificio di Borgosesia che avendo casa a Courmayeur si fermava sovente a pranzo a noi, anche lui rimase impressionato dalla qualità del prosciutto. “Facciamolo insieme” mi disse e così nacque la De Bosses, praticamente decisiva fu quella mia idea improvvisa di partire subito in Vespa verso Bosses, seguendo una sorta di richiamo.»
E si perché nei geni di Bruno Fegatelli i salumi e il prosciutto tornano spesso. Il papà Emanuele, classe 1932, nasce a Roma ma la sua famiglia è originaria di Cittareale, piccolo magnifico borgo della zona tra l’Abruzzo e Rieti dove da sempre con i tipici suini neri si produce il prosciutto amatriciano, una tradizione che il padre di Emanuele - Virgilio - ha ereditato dai suoi antenati, anzi che porta in tavola insieme alle ricette della propria terra, aprendo negli anni Venti un ristorante nella capitale.
La mamma è Pasqualina Dallou, nata nel 1937, di Issogne, figlia di Pierina Sarteur “Durei” di Ayas ma abitante a Challand-Saint-Victor e di Giuseppe, una figura chiave per il giovane Bruno: il nonno infatti è un segantino in estate, specializzato nella costruzione dei racard, ma in inverno il suo lavoro è la macelleria a domicilio oppure la preparazione dei salumi, soprattutto dei “sancet”, il cui nome deriva da “sang du porcet”, i famosi sanguinacci.
Finita la guerra, con la Valle d’Aosta in condizioni di miseria, Giuseppe Dallou con la moglie Pierina e la figlia Pasqualina di otto anni il giorno di Ferragosto del 1945 passa dal Piccolo San Bernardo e raggiunge Chambery. Qui vive la sorella Melania, sposata con l’alsaziano Camille Lami. Pasqualina cresce senza conoscere l’italiano, vive naturalizzata francese e parla in casa il francoprovenzale di Issogne e di Ayas. Studia da puericultrice e si diploma a Chambery, però ha una passione ancora più forte: quella per la cucina. Così sceglie di andare ad imparare: nella città savoiarda opera dopo una vita costellati da successi e da stelle Michelin il celebre chef Olivier Gratta-Paille, che privo di una gamba persa durante il primo conflitto mondiale, ha scelto di avere una clientela ridotta nel numero, pur mantenendo un servizio impeccabile e lei lo affianca.
Nella stessa città da qualche giorno è arrivato Emanuele Fegatelli, impiegato del Ministero degli Affari esteri, assegnato al Consolato d’Italia di Chambery. Nato e cresciuto nel ristorante di famiglia a Roma incontra Pasqualina e nel 1958 si sposano. Uniscono la loro passione per la buona cucina e in poco tempo aprono, come gestori, La Grande Ourse in Val d’Isère e La Rotonde a Aix-Les-Bains, ottenendo grandi successi soprattutto nella nuova stazione degli sport invernali, dove il loro ristorante è frequentato dai famosi sciatori, come Jean-Claude Killy e Henri Oreiller. Il loro sogno è però quell’albergo che vedono dal loro locale a Val d’Isère, si chiama Le Parisien ed è chiuso e vorrebbero acquistarlo e riaprirlo.
Nel frattempo il 6 marzo del 1963 a Chambery nasce il nostro Bruno Fegatelli, ma per Emanuele e Pasqualina sono giorni difficili. In effetti, sposando Pasqualina, Emanuele è diventato cittadino francese, quindi ha dovuto lasciare il Ministero degli Affari esteri e anzi il conflitto dell’Algeria, appena conclusosi, lascia presagire altre guerre coloniali, con il rischio per lui di essere chiamato per il servizio militare. Per questo motivo Emanuele e Pasqualina hanno deciso di rientrare, la meta è la Valle d’Aosta e aspettano solamente la nascita del loro primo figlio per partire. Infatti, tramite un parente del nonno Giuseppe, hanno concluso l’accordo per prendere in gestione a Saint-Vincent, nella centrale via Ponte Romano, l’Hotel Ferré, il cui ristorante aprono al pubblico il 26 marzo del 1963, un martedì, abbandonando le camere e scegliendo il nome beneaugurante di Le Parisien. La loro idea è quello di essere il primo ristorante di cultura francese in Valle d’Aosta, dove la tradizione è invece ancora molto legata ai piatti piemontesi, con un’attenzione che si svilupperà sempre più nel tempo per la cucina valdostana. Pasqualina quindi passa dal magret de canard e dal foie gras ai rigatoni all’amatriciana, escludendo qualsiasi forma di rivisitazione, ma puntando alla sostanza, come la sua polenta arancione acquistata dai mulini di Ivrea secondo le usanze. Al Le Parisien la clientela non manca, all’epoca il Casino de la Vallée è quello dei ricchi clienti, dai nobili agli industriali del nord, ma il ristorante è pure tappa per i valdostani che lo scelgono per le loro serate speciali. Il 28 aprile del 1964 Pasqualina ed Emanuele festeggiano la nascita di Patrizia ad Aosta e la piccola, come il fratello Bruno, viene affidata ai nonni.
«Il nonno Giuseppe era la nostra baby sitter - dice sorridendo Bruno Fegatelli - e così siamo cresciuti a Saint-Vincent insieme a lui, alle sue storie, ai suoi amici, salendo al mayen a Pra de Ran Gorris, giocando tra i prati e le mucche. Inoltre quei sentieri e quelle strade nei boschi mi hanno fatto scattare un amore che non mi ha mai abbandonato. Quello per le moto e il fuoristrada, a nessuno dei miei piacevano le moto, in famiglia non ne avevamo e così da ragazzo ho escogitato un “sistema”: in paese mi avvicinavo ad una moto, la prendevo in “prestito”, facevo un bel giro, in centro magari destreggiandomi sui gradini che scendevano alla chiesa oppure fuori nei boschi, poi la riportavo dove l’avevo presa.»
Per Bruno Fegatelli il percorso scolastico è di scarso interesse. Dopo le elementari e le medie a Saint-Vincent, inizia Ragioneria all’Istituto Panorama e poi anni passa a Verrès al professionale per periti tecnici. Sono le moto ad interessarlo. «La prima mi venne regalata a dodici anni, da un amico di mio papà che si chiamava Guido Rosi. Era una Gilera 175 Regolarità Competizione che lui teneva a Saint-Vincent ed usava quando veniva da Torino. Praticamente divenni il terrore delle mulattiere, con le guardie ecologiche che tentavano di prendermi. Poi nel 1977 mi comperarono un Simonini 50 Cross ed iniziai con le competizioni ufficiali, iscritto al Moto Club Aosta dell’indimenticabile presidente Attilio Rocca che ci accompagnava alle gare, in Valle per esempio a Sarre, oppure fuori in Piemonte.»
«Per i giovani della mia generazione - ricorda Bruno Fegatelli - il motocross era l’unica disciplina praticabile in Valle d’Aosta, oltre al trial che non mi piaceva, visto che siamo troppo lontani dagli autodromi per gareggiare in pista. Il territorio della nostra regione è poi perfetto per il motocross e all’epoca, tra gli anni Settanta e Ottanta eravamo davvero in tanti. Il mio miglior risultato fu il settimo posto finale nel “Trofeo Imerio Testori”, circuito nazionale valido per il Campionato Italiano Juniores.»
Nel frattempo Le Parisien da via Ponte Romano a Saint-Vincent trova una nuova sede. «Nel 1970 venne aperto il casello autostradale a Châtillon. Prima i clienti per il Casino arrivavano uscendo a Verrès e quindi passavano davanti al nostro ristorante. Così pensammo di doverci spostare, acquistammo un terreno ma nel frattempo ci trasferimmo a Panorama, dove rimanemmo fino al 1981 quando, poco più avanti, aprimmo Le Privé Parisien nella casa che avevamo costruito. Mia mamma e mia sorella Patrizia bravissime in cucina, io e papà Emanuele come sempre in sala a gestire la clientela, con del personale super professionale. Dopo Le Parisien, Le Privé Parisien rappresentò un ulteriore salto di qualità, con pochi coperti, ventiquattro al massimo, e una clientela eccellente, proveniente dalla Svizzera e dalla Francia, mentre quella del Casino divenne sempre più rara, conseguenza naturale del cambiamento di costumi anche nel gioco. Abbiamo lavorato bene per quasi quarant’anni, sino a che non hanno impedito l’accesso pedonale a causa di un’interpretazione del codice della strada e a quel punto abbiamo chiuso.»
Per Bruno Fegatelli la chiusura dell’ormai famoso Le Parisien è praticamente indolore, visto che nel frattempo aveva creato la De Bosses. «Fondamentali furono per l’inizio della nostra attività Edi Avoyer, negli anni Novanta sindaco di Saint-Rhémy-en-Bosses, e Ivo Collé, che hanno permesso al “jambon” di avere una dignità. Il nostro progetto è partito con una società nella quale il Comune mise il dieci per cento e noi privati - Bruno Fegatelli, Alessandro Tibaldi e Franchi SpA - il novanta. Il problema era che non avevamo una stabilimento, non c’era nulla, anzi si rischiava di perdere la Dop. La sede individuata, all’ingresso del borgo di Saint-Rhémy, era la Caserma della Guardia alla Frontiera, successivamente utilizzata dalla Guardia di Finanza, ma ancora vincolata a finalità di difesa nazionale. La Regione quindi si attivò per acquisirla al proprio demanio e poi la trasferì al Comune di Saint-Rhémy-en-Bosses e la affittò alla De Bosses. Era il 2000 ed ora, dopo ventidue anni, abbiamo iniziato la costruzione di un nostro stabilimento, in fondo al borgo, da realizzare con le più moderne soluzioni per un prosciutticio, lo concluderemo a fine del 2024.»
Nel frattempo molte cose sono cambiate. Il passaggio generazionale della Franchi SpA ha avuto parecchi problemi e così ora l’azienda per il novantacinque per cento è detenuta da Bruno Fegatelli e dal nipote Enrico Meta, il figlio della sorella Patrizia, che si occupa della parte amministrativa. Il Comune di Saint-Rhémy-en-Bosses ha ridotto al cinque per cento la propria quota.
«La De Bosses ha un fatturato - spiega Bruno Fegatelli - di circa due milioni di euro e coinvolge tra dipendenti e indotto una quindicina di persone. E’ un’azienda del territorio e per il territorio, caratterizzata da marchi tutti brevettati e da un importante fattore umano. Mi piace qui ricordare due persone, come Nadia Muzzolon, la nostra prima agente di commercio, che ha creduto molto nella nostra idea e Bruno Desandré e Vittoria Munier che hanno creato la prosciutteria “Sous le pont de Bosses”, che è stata fondamentale per fare conoscere i nostri prodotti.»
L’ultima idea di Bruno Fegatelli è la De Bosses Suisse con sede a Martigny, una nuova società che con l’ampliamento della produzione grazie allo stabilimento in costruzione, consentirà di raggiungere maggiormente il vicino e quanto mai interessante mercato elvetico, coinvolgendo Sofia, la figlia di Bruno e sua moglie Tatiana, che adesso studia economia all’Università di Losanna.
Nella vita di Bruno Fegatelli le sfide non mancano mai, arrivano una dopo l’altra, a testimonianza di una forza di volontà incredibile, di un entusiasmo coinvolgente, che mette in ogni sua passione. Lo capisci parlando con lui, che siano le tradizioni culinarie valdostane, le storie dei suoi antenati ristoratori e esperti di salumi, le gare di motocross, il collezionismo per le moto ed i mezzi d’epoca. Ha la capacità di trascinarti nel suo mondo e di raccontarti aneddoti dimenticati, storie che per lui sono importanti, parole del nonno Giuseppe e voci del suo mayen, di quando i bambini crescevano accompagnati dalla saggezza dei vecchi e dal senso pratico della montagna.